È una sincerità brutale quella messa da Luca Persico, per i fan dei 99 Posse semplicemente "‘o Zulù", nelle 270 pagine di “Vocazione rivoluzionaria”, l’autobiografia "mai autorizzata" che l’eroe di “Curre curre guaglió” presenta stasera a Brescia (ore 19) nella cornice controculturale del Magazzino 47, il centro sociale autogestito di via Industriale.
Partiamo dalla sua "vocazione". "Per tutta la vita ho scritto canzoni non solo per prendermi cura delle mie compagne e dei miei compagni, della società e del mondo, ma pure di me stesso. Assumere veleni di continuo ti rende impossibile sopravvivere se non tirandoli fuori e trasformarli in energia pulita. Procedimento che ho sempre seguito con le canzoni. Ma da un paio d’anni la canzone non mi cura più come prima e per questo mi sono messo alla ricerca di nuove forme espressive".
Dove l’ha portata la ricerca? "A puntare più sulla profondità delle parole che sulla loro capacità di sintesi, dando il via a un nuovo percorso in bilico tra teatro, performance, reading, nonostante il fatto che i 99 siano ancora vivi e attivi sui palchi di tutta Italia. È proprio la canzone in sé che sto vivendo in questo momento come un limite; meglio quindi gettarsi nella battaglia di ricostruire date, momenti, situazioni, della mia vita per raccontarle in un libro".
Perché in questo momento le canzoni non la curano? "Probabilmente perché oggi scrivere della nostra società mi costringerebbe a ripetermi. Se butto un occhio alle urgenze della cronaca non trovo cose su cui non abbia già espresso, tristemente, le mie opinioni dieci, venti, trent’anni fa. E almeno nel mondo della canzone politica credo che il compito di prendere la parola spetti ora alle giovani generazioni. Perché devi stare dentro al flusso delle cose, mentre io, che mi vanto di non essere sui social, ne rimango volutamente ai margini perché penso di aver esaurito quel tipo di percorso. Meglio cercare altre forme di autodefinizione, anche perché la parola “noi“ ha finito col lasciare sempre più spazio a “io“, seguendo un imbarbarimento della società che va avanti almeno da una quarantina d’anni".
Regressione, dunque? "Dagli anni Ottanta abbiamo assistito al sistematico smantellamento d’ogni forma di profondità del pensiero; dalla politica alla canzone, dalla comicità alla letteratura, al cinema. Tra i passi indietro c’è stata la perdita del concetto di collettivo, di moltitudine, che per la mia generazione era stato salvifico. Ho smesso di sentirmi un povero co**ione nel momento in cui ho scoperto, grazie anche alle canzoni dei primissimi U2, di Tom Waits, o dei Clash, di non essere solo. E che ad avere le mie stesse necessità eravamo in tanti".
Pure l’antagonismo ha cambiato faccia? "Direi di no. S’è, piuttosto, evoluto coi tempi. C’è stato tanto ricambio generazionale e questo è un bene. C’è più di un posto, a cominciare dallo stesso Magazzino 47, dove un tempo ero di casa e oggi invece non conosco più nessuno o quasi; la cosa mi piace perché nuovi volti e nuova linfa consentono di mantenere viva una certa visione del mondo".
Leonka 1992. È cominciato tutto da lì? "L’unica volta che abbiamo avuto modo di esibirci al Leoncavallo originale, quello affacciato sulla via omonima. Dall’esibizione nacque un bootleg cui siamo ancora legatissimi. Anche se il processo era iniziato qualche mese prima, quell’esibizione fu una delle prime fotografie del nostro passaggio da militanti a musicisti. Milano, Brescia, Padova le conoscevamo e le frequentavamo, ma fu quello il momento in cui, alla fine delle manifestazioni, cominciammo a montare l’impianto e a fare un po’ di baldoria, come modo d’intrattenerci fra noi compagni e come forma d’interventi situazionisti nelle assemblee cittadine. Poi un discografico ci convinse a mettere tutto in un disco, lì per lì pensammo fosse pazzo e invece… aveva visto lontano".