
Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia in libreria
Terza parte del racconto con cui Pier Paolo Pasolini iniziò la collaborazione con “Il Giorno” che si sviluppò per un decennio nel corso del quale firmò racconti, inchieste di viaggio e articoli di varia ispirazione. Un “debutto” con la cronaca di un’ordinaria domenica – quella del 4 ottobre 1960 – di un poeta, scrittore, drammaturgo, regista. Tra i tanti risvolti quello dei travagli per “Accattone” le cui riprese furono ultimate nel luglio del 1961. Protagonista della pellicola sarà Franco Citti, il fratello di Sergio, definito dall’autore «il mio vivente lessico romanesco», aiuto regista Bernardo Bertolucci – al suo primo film – che compare anche in questo racconto della domenica, così come compare il contatto con Fellini per un’eventuale produzione che non andò in porto. Ma si aprirono altre strade...
Ed ecco, che, come aspettato, come una conferma, suona il telefono. È Franco, quello che dovrebbe essere Accattone, il protagonista. Ormai mi telefona da una settimana, a quest’ora, tutti i giorni: inutilmente e lo sa. Con lui suo fratello Sergio, il mio vecchio, insostituibile aiutante, il mio vivente lessico romanesco, e tutti gli altri: la mia ansia è esasperata dalla loro. Non so come tranquillizzarli, come medicare la loro possibile delusione. Fellini, ieri, si è preso la pizza ed è andato a vedersi il materiale da solo. Dovevamo andarci insieme, anche con gli attori, perché venissero un po’ incoraggiati... Soltanto dopo, Fellini mi ha telefonato per avvertirmi della cosa. In realtà era comprensibile, giusto che egli facesse così. Ma poi nuovo silenzio. Ho aspettato per tutta la mattina una telefonata: niente. Allora ho telefonato io e ho saputo che Fellini e Fracassi erano fuori: erano andati a un matrimonio. Bene: mi rimetto al lavoro, alla mia vecchia "Storia interiore", che non ingrana più.
Adesso, a telefonarmi, è Bernardo Bertolucci, anche lui in ansia: mi avverte che è arrivato suo padre. Allora mangio in fretta e salgo su al quinto piano. Bertolucci e io abitiamo nella stessa casa, dietro a Villa Sciarra. Bertolucci è solo, col figlio maggiore. I suoi non sono ancora tornati. Ci mettiamo nel suo dolce salotto parmense. E cominciamo a fare una di quelle nostre lunghe chiacchierate, quelle che si fanno proprio tra amici. Anche se io sono cosi depresso e ridotto all’osso dalle notti insonni. Sul suo tavolino c’è, " Paragone " con due sue poesie, che leggo subito: come tutte le sue ultime, sono stupende, struggenti... Poi parliamo di cento cose, dei nostri amici, letterati e scrittori; facciamo un po’ di allusioni maldicenti, perfettamente innocue, perché né lui né io siamo capaci di farle sul serio, e se non del tutto motivate da un preventivo giudizio di valore. Parliamo delle mie disgrazie, che lo opprimono e lo angosciano, lo vedo dai suoi occhi marroncini che si empiono di smarrimento. Parliamo del mio film, naturalmente, e di Fellini, che è là, come una Pizia deliberante remota. Bertolucci, che viene giù dalla sua Parma, dove già è autunno (lo vedo: coi vigneti vendemmiati, la pianura sfumata verso il Po, le colline incerte, smunte, e quell’aria allegra dell’inizio delle scuole, con gli studenti eleganti, vestiti di stoffe inglesi, che affollano la Via Emilia): e trova sacrilego il tepore ancora estivo di Roma.
Il sole arde, sfatto ma cocente: e soffia uno scirocco che fa sudare. Io invece amo questo sole. Conosco, oltre il quartiere dove abitiamo, altri cento quartieri, alti e turriti come Città di Dite, accecati da quel sole; con sotto i prati sporchi e le distese di casupole, le scarpate nere. Non posso più restare in casa. Abbraccio Attilio e me ne vado, a ingannare la nuova attesa perdendomi nella vecchia solitudine. Dove vado? C’è poco traffico a quest’ora, e spingo la macchina pigramente per le strade calde e gialle. Ecco, andrò a dare un’occhiata all’Acqua Santa, è più di un anno che non ci vado, ed è, invece, uno fra i luoghi più dolci e riposanti di Roma.
Arrivo sull’Appia Nuova, lascio la macchina, entro attraverso un reticolato abbattuto. Intorno a me, palazzoni, a mandrie, come depositati lì da una mareggiata: in mezzo – annidate tra scarpate e terrapieni – strisce di baracche, di casupole: e, davanti, il prato. Sembra un pezzo dei paesaggi di Ford. Ondulato, piatto, selvatico. Proprio in fondo allo stradello si erige una specie di informe monumento di tufo, rotondo, corroso da chissà che alluvioni. E, man mano che si avanza, dietro siepi compatte e verdi come il fondo del mare, dietro distese di umili puncicarelli, si aprono le grotte: tutte foderate di pungitopo, con delle piccole voragini nere come pozzi, e sormontate da ponticelli naturali vividi di erbetta: grotte complicate, ariostesche. In fondo alla distesa dl cocuzzoli, montarozzi e sprofondi, dietro a una specie di dolce vallata che finisce lungo un rigagnolo, si vede l’Appia Antica sotto il cielo già spento, con la tomba rotonda e marroncina di Cecilia Metella. Il sole inonda ancora tutto, come una colata di miele o di bruma.
Ecco laggiù, in cima al montarozzo più alto, un gruppetto di preti seduti, che tutti neri si prendono il sole come ramarri; ed ecco qui, sul ciglio d’un burroncello, un ragazzo in bicicletta, fermo, con la faccia liscia e i lineamenti di animaletto selvatico, di gatto bianco. La sua bicicletta è quella dei pazzi dei paesi: sul manubrio pendono delle striscioline colorate di tela pesante, come stelle filanti, e due tre altri oggettini rossi, verdi, gialli. Sui parafango della ruota davanti è attaccato un aeroplanino rosso aerodinamico: la pompa è rossa, e c’è anche quel piccolo treppiede con cui si reggono in equilibrio le motociclette, tutto dipinto in azzurro, Il ragazzo se ne sta lì, profilato contro l’orizzonte romano, come un azteco...
Si fa sera, rientro in città: la vecchia, disperata città serale, con le sue luci che ricordano la morte, le sue file di automobili una addosso all’altra, rabbiose, senza spazio e respiro: e le migliaia di estranei, intorno, non più uomini di formiche o defunti. Indicibile la lotta per posteggiare la macchina, nei pressi di Via della Croce. Finisco a Via dell’Oca, dopo un’infinità di giri per sensi unici e circolazioni rotatorie. Lascio la macchina — è presto — e vado a piedi verso Via del Corso, che, tra Via della Scrofa e Via del Babuino, è la meno noiosa. All’angolo di Via dell’Oca, vedo venire avanti Moravia; sarà che sono giù io, ma anche lui mi pare abbastanza triste. Va verso casa, visibilmente con tutto un pezzo di pomeriggio consumato con insoddisfazione, e tutto un pezzo di sera davanti, da consumare forse con altrettanta insoddisfazione. Ci salutiamo allegramente, ma poi parliamo un po’ a fatica: io non riesco neanche quasi a spiegargli che cosa vado a fare da Fellini e che cosa aspetto: balbetto con una voce che pare pestata a martellate in gola, da castrato. Benché, come si sa, un po’ duro d’orecchio, Moravia, al solito, capisce subito tutto. L’intelligenza è bontà e la bontà è intelligenza; se, per lui, posso parafrasare Keats. E si trascina verso casa, fissandomi l’appuntamento per andare a cena insieme.
(3 – Continua)