
Pippo Delbono 65 anni in scena con la sua compagnia per “Il Risveglio“ Da martedì lo spettacolo torna al Piccolo Teatro Strehler
Il dolore. Il tempo sanguinante del lutto. La trasformazione. Eppure, al suo fianco, ecco straripare la vita. Forza incontrollabile che travolge. E neanche capisci bene perché. Difficile trovare a teatro (nell’esistenza) un contesto così esplicito nell’avvicinare gli opposti. Vengono in mente quei funerali in cui, dopo aver pianto tutte le proprie lacrime, uno ha solo voglia di festeggiare l’esistenza in un abbraccio, una mangiata, un coro di amici. Ed è un po’ questa la sensazione di fronte a Pippo Delbono. A quei suoi percorsi non allineati, di figure ai margini e bellezze storte. Da martedì torna al Piccolo Teatro Strehler con "Il risveglio". Sul palco la sua compagnia. Per un lavoro dedicato a chi ha avuto il coraggio di (ri)aprire gli occhi. Mentre sullo sfondo batte ancora forte il cuore di Bobò, morto nel 2019 ma amico di sempre, dopo i trent’anni al Manicomio di Aversa.
Pippo Delbono, intanto come sta?
"Meglio. Ci sono periodi peggiori di altri, questo non è male. C’è più vita. Mi hanno aiutato le persone. E come al solito il teatro, che salva sempre".
Il palcoscenico è una cura?
"C’è di tutto. È un luogo rituale, ci trovi il dolore, la gioia, la ferita. Anche la cura, perché no. Io porto me stesso e il privato torna ad essere politico, come una volta".
I testi questa volta sono tutti suoi.
"Osservo la vita, azione che per me rimane fondamentale. E osservo questa società chiusa, che mi gira intorno. Con la poesia che diventa un veicolo per parlare di verità".
Non le piace quello che vede?
"È un mondo autoriferito, che non sa più ascoltare. Perdiamo il contatto perfino con il teatro, non capiamo se ancora ci appartiene. E poi viviamo in una società profondamente razzista, dove il diverso lo releghiamo nelle zone in cui nessuno vede, agli angoli. C’è questa paura degli altri che è peggiorata nel tempo. Osserviamo con timore il diverso. Non a caso sono pochissimi gli artisti di colore in Italia".
Di che risveglio parla nello spettacolo?
"Prima di tutto del mio. È stato un momento molto difficile, da cui sto uscendo piano piano. Prendevo tanti farmaci, ora va meglio. Ma anche la lucidità può fare male, vedi le cose per quelle che sono. E oggi risvegliandosi uno ritrova le stesse persone, le stesse guerre, le stesse tensioni. È una ferita che proviene da lontano, a cui si è aggiunta la morte di Bobò e di altri, a partire da mia madre. Ce n’è sempre da vendere di dolori".
Sta preparando un film su di lui.
"Sì, lo voglio far conoscere al mondo, raccontando la storia di quest’uomo e di questo artista unico e straordinario. Lo conobbi durante un seminario in manicomio. C’era lui a seguire le lezioni, mi sembrò subito bellissimo. Me lo sono portato via. E oggi gli dedico il finale, dove torniamo a ballare insieme. Perché Bobò aveva problemi a camminare ma sapeva ballare benissimo, un po’ come me".
Il teatro?
"Mi pare misero, poco colto. Sembra che parli a persone che a scuola prendevano fra il 5 e il 6. Mancano figure grandi come Strehler, Ronconi, Carmelo Bene. Il mio percorso è stato un po’ diverso ma quel teatro di tradizione mi ha comunque influenzato, se pensa all’uso che faccio della voce e del canto. Ci vorrebbero loro e Pina Bausch, Kantor, Brook, Grotowski. Artisti che mi hanno spinto ad aver voglia di essere un creatore".
Quindi cosa bisogna aspettarsi?
"L’ultimo è sempre lo spettacolo più bello. È stato difficile. Non c’era nulla. Poi all’improvviso è stato uno scoppio: la vita".