DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Enzo Iacchetti: "Tutto cominciò con il dono di una chitarra marcia"

Enzo Iacchetti concede un’“Intervista confidenziale”

Enzo Iacchetti

Milano, 28 ottobre 2016 - «Avevo 9 anni e volevo una chitarra ma i miei genitori erano poverissimi. Un giorno andando per cantine, mio padre ne trovò una tutta marcia che mi portò a casa, quasi come una sfida. Nel giro di una settimana l’avevo sistemata. Possiamo dire che quel giorno mio padre si tirò la zappa sui piedi…». Comincia così la storia (artistica) di Enzo Iacchetti. Una storia gonfia di incontri, di gavetta, di applausi e di bocciature.

Una storia tutta da raccontare in “Intervista confidenziale”, prima nazionale domani e dopo al Teatro Delfino di piazza Piero Carnelli. In attesa dunque di rivederlo dal 21 novembre a Striscia, l’Enzino nazionale sceglie la periferia. Per il terzo anno. Sostenendo in prima persona lo spazio diretto da Federico Zanandrea. Che stasera apre invece con il curioso “Oltrepossiamo”, (tragicommedia cult contro l’inceneritore di Retorbido), prima di proporre la Mazzamauro, Barbara De Rossi, Marco Berry, nuove produzioni e spettacoli per i bimbi.

Iacchetti, come mai questa voglia di raccontarsi? «L’idea nasce da una conferenza in Bocconi. Mi sembrava di non avere nulla da insegnare ma gli studenti iniziarono a fare domande, cercando di vedere cosa ci fosse dietro l’impalcatura. In quel momento mi sono messo a raccontare la mia vita, gli aspetti più comici e quelli più drammatici. E ora trasferisco la stessa esperienza a teatro. Il pubblico è assetato di verità».

E lei dice la verità? «Sì, pure qualche segreto, ma solo se spengono i cellulari. È un modo per far partire il gioco della complicità».

Perché al Delfino? «Perché a 64 anni sono contento di poter decidere di andare in un piccolo ma bellissimo teatro di periferia e di non guadagnare nulla, invece che fare migliaia di spettatori al Manzoni. E spero che facciano la stessa cosa molti miei colleghi, questi spazi sono una medicina e vanno aiutati».

Cosa successe dopo quella prima famosa chitarra? «Alle medie imparai a suonare tanti strumenti. La maestra consigliò che facessi il conservatorio, ma mio padre chiuse la questione dicendo che quel mondo lì è pieno di droga, raccomandati e prostitute. Che poi non aveva nemmeno tutti i torti… Fortunatamente c’erano strade diverse. Ho imparato a girare per le città, a far gavetta e ad ascoltare la gente, i maestri: Gaber, Jannacci, Dario Fo».

Il provino per Maurizio Costanzo non fu un successo… «No, mi cacciarono via. L’autore non apprezzò le mie poesie e canzoni bonsai. Buttai per aria tutto e me ne tornai a Maccagno. Avevo già dato la caparra per comprare una licenza da tabaccaio, ma mi chiamò la caporedattrice Vera Venturini, che aveva trovato i miei libricini sulla scrivania ed era rimasta colpita dall’idea. Mi cambiò la vita. Ho insistito sempre con tutte le mie forze e alla fine è arrivata la fortuna. Pensi solo se quel giorno Vera fosse stata in ferie...».

Rimpianti? «Un po’ il cinema, nessuno mi ha mai interpellato. Da anni propongo la regia di un romanzo di Gian Antonio Stella, con la collaborazione di Ugo Chiti, dicono sempre che mi faranno sapere. Ma io non credo di avere più tantissimo tempo».

Il momento più bello? «L’incontro con Gaber. I miti spesso si rivelano delle teste di cavolo, invece quella la considero la serata più bella della mia vita. Dopo uno spettacolo andammo a cena insieme e scoprii un uomo fragile, vicino alla gente. Nacque un’amicizia. Solo da lui e da Jannacci non sono stato deluso. Sarà per quello che ho pochi amici fra i colleghi. I miei amici fanno altri mestieri».