"Tu, Ettore, sei Mo e basta". Sorrideva, Piero Ottone, mentre presentava Ettore Mo in un collegio universitario di Pavia. Un grande complimento rivolto a l'eccezionalità, l'unicità di un grande inviato/testimone sui fronti delle guerre, delle guerriglie, dei massacri, della rivoluzioni, della fame, delle carestie: l'inviato che prende, va, riferisce.
Mo ricambiava il sorriso e sul viso si aprivano infiniti segmenti e solchi di rughe. Pareva un bonzo antico o, come è stato scritto, un Golem scivolato dalla mano del suo creatore prima dell'ultimo tocco. Certo quella sera, una placida serata pavese d'inizio ottobre, i due protagonisti non potevano non ripensare a quel primo incontro, nel 1962, quando Ettore da Borgomanero, nato il primo giorno di aprile del 1932, figlio di un operaio della Siai Marchetti, si presentò a Piero Ottone, corrispondente da Londra del Corriere della Sera.
Ancora il sorriso di Mo quando, a una sua comparsa, si verificava un reverente affollarsi di giovani cronisti attorno alla quella figura minuscola e compatta. "Se mi date del lei, mi arrabbio sul serio", era quasi il suo esordio. Piacere dei ricordi, emozioni dei ricordi. Come rintracciare dalla libreria un libro di Mo, "La peste La fame La guerra" e riscoprire la dedica: "A un collega e amico".
La vocazione del giramondo è ancora precedente a quella per il giornalismo. Mo la scopre a diciotto anni, dopo la maturità classica. Pochi esami di lingue a Ca' Foscari, a Venezia. Per mantenersi accompagna i ciechi dell'Istituto Configliachi di Padova. Sogna e studia il bel canto, ha una discreta voce di tenore leggero, abbandona quando si rende conto di non essere un fenomeno. Finisce per partire per l'Isola di Jersey, sulla Manica, in un viaggio organizzato dall'università. Per mantenersi fa il barista, lo sguattero, il cameriere. Poi, sempre dividendosi fra un lavoro precario e l'altro, ad Amburgo e poi a Madrid, in un collegio, a insegnare francese, lingua che ignora quasi del tutto.
"Dopo qualche tempo - ricordava - tornai in Inghilterra, a Londra, perché mi era venuta la voglia di fare il giornalista. Ma non sapevo come incominciare e dovetti rassegnarmi, per tirare avanti, a fare l'infermiere in un ospedale di incurabili: lavare lenzuola, lavare i pazienti. Insomma sei mesi di inferno, prima di imbarcarmi come cameriere su una nave passeggeri della 'P.&O. delle Orient Lines ... Momenti di allegria e tante risse, perché noi italiani eravamo guardati con sospetto dagli inglesi. Qualche cicatrice mi è rimasta".
Lo raggiunge in Giappone una lettera di Piero Ottone che gli raccomanda, in una sorta prevista dalla sua nave a Napoli, di presentarsi a Giovanni Ansaldo, direttore del Mattino. Ansaldo, armatore-giornalista, è incuriosito dalla figura di quel marinaio-giornalista con un cognome così corto. Peccato che quando Mo si presenta a Napoli, Ansaldo non ci sia. Dopo quell'infinito bussare la porta del giornalismo si apre finalmente: è quella dell'ufficio di corrispondenza da Londra del Corriere, titolare Alfredo Pieroni, affiancato da Pietro Sormani. Dopo Londra cinque anni a Roma e altrettanti a Milano, redattore della pagina degli spettacoli. A quarantacinque anni, dopo tanti passati nel retrobottega del giornalismo, nell'età in cui gli altri cominciano a fare i conteggi per la pensione, a pensare a un decoroso ritiro. Non è così per Mo, che per tutta la vita conserverà, fino all'ultimo, una fisiologica incapacità di invecchiare. Lo spediscono a capire e raccontare l'Iran di Khomeini.
Ettore Mo viene "scoperto" e non si ferma più, forte delle quattro lingue imparate in giro per il mondo, dell'esperienza di vita maturata tra i tavolini di un bar e nella cambusa di una nave, di una incredibile capacità di immedesimazione nella gente che incontra, nelle situazioni che si trova a fronteggiare. Così, è in Afghanistan travestito da mujahidin, kurdo in Kurdistan, mescolato con i poveri e i guerriglieri nel Sud America, a Sabra e Chatile a riferire per primo del massacro, in Vietnam, Cambogia. Jugoslavia, India, Cina, Liberia, Messico, in Cecenia e a Cuba. A chi gli poneva l'inevitabile domanda, rispondeva: "Molti chiedono se ho paura quando mi trovo alla guerra, o con i guerriglieri, quando si spara. Certo che ho paura. Ma questa paura non è niente. E' un obbligo subirla, come per altri è un obbligo presentarsi puntuali in ufficio. Fa parte del mio lavoro. E però il vero spavento lo provo quando mi metto alla macchina per scrivere, col foglio bianco davanti, e devo raccontare. Bisogna farlo con stile, evitare i facili effetti che ti si propongono come tentazioni, evitare insomma che quello che si è visto, una volta messo sulla carta diventi falso".