Alla Scala "La cena delle beffe" tra quei bravi ragazzi

Martone e Giordano portano alla Scala un'opera complessa e di grande impatto di ELVIO GIUDICI

Un momento de "La cena delle beffe"

Milano, 25 marzo 2016 - Nel presentare “La cena delle beffe” di Umberto Giordano che dal 3 aprile la Scala riproporrà per la prima volta dopo il suo battesimo nel 1924, tutti gli artefici dello spettacolo, dal direttore Carlo Rizzi al regista Mario Martone, ai cantanti principali (Marco Berti tenore, Nicola Alaimo baritono) si sono detti concordi nell’essersi approcciati allo studio conoscendo solo la celebre battuta di Amedeo Nazzari nel film di Blasetti (“Chi non beve con me peste lo colga”) e l’ancor più celebre seno nudo di Clara Calamai, scandalo epocale. Qualcosa di più conosceva invece chi nel ’99 s’era preso la briga di andare a Zurigo prima e a Bologna poi, dove l’opera ebbe una gran bella esecuzione diretta dal compianto Bruno Bartoletti e messa in scena da Liliana Cavani. Che l’aveva ambientata non nella Firenze rinascimentale bensì negli anni Venti in cui vide la luce. Qualcosa di analogo farà Martone: ma anni Venti di New York.

«L'altra Italia degli immigrati oltreoceano, col suo mondo chiuso, le bande rivali con relativi odio e rese di conti, gli atavici narcisismi maschilisti. A questo mi ha spinto non tanto la lettura del libretto (che ricalca perfettamente sia il testo teatrale originario di Sem Benelli sia la sceneggiatura di Blasetti), quanto la musica: così immediata, violenta, di grande potenza narrativa». Quindi, come anticipa la scenografa Margherita Palli, «ci sarà non la Firenze dei Medici bensì la New York del Padrino, di Quei bravi ragazzi, di Era mio padre: un edificio di tre piani tutto acciaio e plexiglass sezionato anteriormente così da mostrarne i diversi ambienti e che, nel consentire di passare dall’uno all’altro senza soluzione di continuità, permette analogo fluire del racconto». Un racconto rapido come una vampata, che nella sua relativa brevità (un’ora e mezza scarsa) permetterebbe un’arcata unica senza intervallo, non fosse per i problemi connessi al canto, quello tenorile in particolare come sottolinea Marco Berti interprete di Giannetto. «Parte tremenda, che batte di continuo sul settore tra centro e acuto e che quindi stanca come fossero due Andrea Chénier di fila». E che, come ipotizza Carlo Rizzi, è la ragione principale per la comparsa sporadica di «un’opera fitta di musica ben poco descrittiva d’epoca o ambienti, ma legata invece a dare carne e sangue al testo, con una scrittura assai avanzata per l’epoca, sia in senso armonico che strumentale».