Antonio Caprarica al Festival della Letteratura storica: "Con la regina parlavo di cani e cavalli. Henry coccolato e viziato"

A Legnano lo scrittore-gentiluomo sarà protagonista con ”London Calling“

La regina Elisabetta e Antonio Caprarica

La regina Elisabetta e Antonio Caprarica

God Save the King . Ma anche un po’ Antonio Caprarica. Giornalista gentiluomo. In pratica membro acquisito della Corona Inglese. Una vita da inviato sul campo: dall’Afghanistan a Groznyj, passando per Baghdad. Poi Londra. Un amore. Ricambiato. Muovendosi fra Downing Street e Buckingham Palace. Come racconterà venerdì 12 aprile, alle 21, in "London Calling", al Festival di Letteratura Storica di Legnano (Milano). Sempre con quel fare elegante e sornione. Di chi potrebbe riflettere ore di geopolitica. Ma poi si diverte a Ballando con le Stelle. Questione di aplomb.

Caprarica, di cosa parlerà sul palco?

"Partirò da Carlo III, un uomo così segnato dall’attesa e dalla battaglia col destino. Nel momento in cui potrebbe finalmente vivere il suo ruolo, si ritrova invece in un nuovo dramma. Ma il gossip diventa poi sempre la chiave per raccontare la società".

Come stanno gli inglesi?

"Il 21 maggio esce il mio libro “La fine dell’Inghilterra“, dove nel sottotitolo faccio riferimento a un paese smarrito, con un trono vacillante. È questo il temporaneo punto d’approdo: una piccola nazione alla deriva nell’oceano, dopo essere stata a lungo una potenza. Vicenda che racchiude insegnamenti per qualsiasi democrazia occidentale".

Difficile non pensare alla Brexit.

"Un harakiri. Oggi in tanti si pentono di quel voto e certo non seguirebbero più il pifferaio magico che li ha portati nel burrone. Anche perché i dividendi non si vedono. Fa sorridere l’esultanza per gli accordi commerciali con l’Australia, quando l’Inghilterra aveva a disposizione un mercato enorme, a 30 km di distanza. E oggi, nonostante possegga l’atomica e non abbia mai abbandonato la politica delle armi, il suo peso geopolitico è pressoché nullo".

Quanto ha influito la scomparsa della regina?

"È stata quella che i tedeschi chiamano zeitenwende: una svolta epocale. Si potrebbe parlare a lungo se sia la massa o l’individuo a fare la storia. Ma senza entrare in una visione demiurgica degli avvenimenti, la regina era una figura fuori dalla norma".

Come si fa a incidere così tanto senza un potere effettivo?

"Ho cercato di capirlo a lungo, perché è un fatto che nonostante l’anacronismo urlato dai Robespierre di turno, la monarchia ha sempre resistito e funzionato bene, con un grande appoggio popolare. Oggi mi trovo ad analizzare invece le ragioni del suo vacillare".

Ha conosciuto Elisabetta II?

"Sì ed è stato come ritrovarsi davanti al Monte Bianco: qualcosa di grande che sai che è lì da quando sei nato. Senza essere altezzosa, trasudava maestà, che poi è senso del dovere, consapevolezza della propria posizione, dignità, accumulo di esperienze straordinarie. E per quanto non fosse calorosa, era capace di infervorarsi".

Di cosa parlavate?

"Di cani e di cavalli. I temi erano quelli. Ma le assicuro che l’ho vista saltellare di gioia alla vittoria del suo cavallo alla Royal Ascot. Ho molta simpatia personale anche per suo figlio Carlo, un uomo intelligente, colto. Sono persone normali, che vivono dentro a una prigione. Chiaro che è meglio fare il principe che il minatore. Ma il sacrificio richiesto è quello della libertà e io non so se sarei in grado. E questo spiega la fuga di Henry".

Ho la vaga impressione che non le stia molto simpatico.

"Ammiro chi affronta il proprio dovere. Ma oltre a questo, trovo vigliacco fuggire dalla prigione per poi sfruttarla dall’esterno. Se vuoi essere libero la prima cosa che devi fare è spogliarti del titolo reale. Henry è un ragazzo coccolato e viziato, supportato da quella strega americana che si è sposato".

Quisquilie pensando alla sua carriera da inviato.

"Ho iniziato in Afghanistan negli anni 80. Per me è indelebile l’immagine delle centinaia di migliaia di profughi in fuga verso l’Iran, le loro tende, la sofferenza dei bambini. Un dolore di fronte a cui devi reagire, ricordandoti che hai un mestiere da compiere, che sei lì per raccontare. Ricordo la ritirata dell’Urss, la prima intifada in Medio Oriente, l’incontro con Rabin, un uomo capace di rappresentare una possibilità concreta per la pace e che voleva la restituzione dei territori occupati".

Londra?

"È stato come tornare a casa. E anche lì sono tanti i momenti che mi hanno segnato, da Tony Blair agli attentati del 7 luglio 2005. Ma c’è un ricordo a cui sono più legato, per emozione e per affetto".

Elisabetta II.

"Sì, perché la regina era la regina".