DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Nei microcosmi di Andrea Vitali: “La mia Itaca di provincia e l’italiano meraviglioso”

“La profezia del povero Erasmo“, tra classici dimenticati e cronache locali. “Grazie a Capuana ho resuscitato un verbo dalla cassa da morto: buccinare”. I consigli medici due volte alla settimana e l’intreccio tra vita e immaginazione

Andrea Vitali, 69 anni, scrittore. Presenterà il suo ultimo libro alla Feltrinelli mercoledì

Andrea Vitali, 69 anni, scrittore. Presenterà il suo ultimo libro alla Feltrinelli mercoledì

Milano – È sempre lui il gran signore della piccola provincia: Andrea Vitali. Con quei microcosmi coloratissimi che prendono vita sulle sponde del lago. Neanche abitassimo tutti nella sua Bellano. Orizzonti misteriosi. In cui questa volta inciampa Ariella Achermann. Lei a trovare quel corpo senza identità, una mattina di novembre del 1934. E si capisce presto che il giallo gira intorno a quegli scapestrati di Cletto e di Gioietta, sorta di Bonnie e Clyde locali. Come si racconta nel tragicomico La profezia del povero Erasmo (Rizzoli), il 7 maggio alle 18.30 presentato alla Libreria Feltrinelli di viale Sabotino. Con l’autore a chiacchierare insieme alla giornalista Silvia Truzzi.

Vitali, chi sono Cletto e Gioietta?

“Due bugiardi patologici, di bell’aspetto, con grandi speranze del tutto vaghe sul proprio futuro. Lui è figlio di un fruttivendolo, orfano, insegue sogni e si disinteressa del negozio; lei è operaia all’opificio e ama perdersi fra le pagine dei rotocalchi, osservando le foto dei divi, i loro baci appassionati. E una sera hanno la disavventura di conoscersi sul lungolago di Lecco”.

Un incontro non proprio basato sull’onestà.

“Cletto si spaccia per un grossista, munito di auto; Gioietta per la segretaria del direttore. E quando si confessano la verità, quelle menzogne sono già entrate nelle case, nei racconti del vicinato. Spingendoli a riempirsi di debiti per mantenere in piedi la finzione, l’apparenza del loro nuovo status”.

Si prospettano nubi.

“Già, un pessimo inizio”.

La scelta dei nomi, l’uso del lessico: da lì passa molto della sua scrittura.

“È così. Ed è un aspetto che nasce dal piacere che mi offre la rilettura di alcuni grandi autori un po’ dimenticati. Un Novecento italiano che considero la mia scuola creativa, scrittori che maneggiavano curiosi e con grande agilità la lingua italiana. E questa volta mi vanto di avere resuscitato un verbo dalla cassa da morto: buccinare”.

Mi manca.

“E ci credo! Io l’ho recuperato da Luigi Capuana. Significa sussurrare, insinuare ma in un modo che ti immagini anche qualche piccola bolla di saliva sulle labbra. Fotografie ineffabili che provengono da una terminologia desueta. L’italiano è meraviglioso”.

Capuana l’ha detto, altri maestri?

“De Roberto, Nico Orengo, Giorgio Bassani. Grandi autori diventati loro malgrado di nicchia, poco letti e poco proposti. Ma penso anche a Sciascia, Consolo, Bufalino: una dorsale di valore, che muove dal nord al sud d’Italia. Tanto del mio immaginario proviene però dai suoi colleghi dell’epoca”.

Le cronache della provincia. “Esattamente. Quegli articoletti sul circondario di un secolo fa, hanno su di me una fascinazione enorme, li considero spunti inesauribili da cui poi sviluppo le mie storie, i personaggi. Anche in questo caso. Sono partito infatti dalla lettura di un poveraccio pieno di debiti che per risolvere la faccenda aveva provato a cedere la moglie al creditore, finendo davanti al giudice. Storie che hanno un potenziale narrativo a cui non resisto”.

Ma lei non si è mai sentito “infognato” nella provincia, come la sua protagonista?

“No, anzi. Intanto ne amo i paesaggi, non conosco il canto di sirene lontane, considero questa la mia Itaca. E poi da quando il paesaggio è diventato teatro dei miei libri, c’è un intreccio fra vita e immaginazione che mi dona sempre nuove curiosità”.

Luogo del cuore?

“Il cimitero. Da lì si gode una vista straordinaria sul lago. Oppure mi piace passeggiare sui confini esterni di Bellano, osservare il paese un passo fuori, nel silenzio, nella contemplazione”.

Per anni è stato anche il medico del paese: quando ha deciso di abbandonare lo stetoscopio?

“Nel 2013, mi mancavano ancora dieci anni alla pensione. Iniziavano ad aumentare gli impegni da scrittore e provavo una certa insofferenza verso una professione che già si stava sempre più digitalizzando. Mi sono accorto che avrei fatto danni, da una parte o dall’altra. Ma se un brutto libro è accettabile, la salute è tutta un’altra storia. E così decisi di dimettermi dopo una riunione di famiglia e aver fatto un paio di conti”.

Chiedono ancora consigli al dott. Vitali?

“Un paio di volte la settimana. Persone che conosco da una vita, se posso dare una mano lo faccio volentieri”.

Cosa le piace che dicano dei suoi libri?

“Che leggerli è stata una boccata di ossigeno, una finestra aperta nella quotidianità. Non mi piace invece quando la presenza del luogo come teatro delle vicende, fa pensare di avere sempre a che fare con le stesse storie”.

Un po’ come accusare Woody Allen di girare sempre a New York.

“Proprio così. Ma io non sono Woody Allen!”.