
Angelo Aparo, psicologo in carcere dal 1979, ha fondato il Gruppo della Trasgressione
Milano – Lo psicologo Angelo Aparo è entrato per la prima volta in un carcere, prendendo servizio a San Vittore fresco di studi, quando correva l’anno 1979. Quasi mezzo secolo di vita professionale trascorsa anche a Bollate e Opera, nel carcere minorile Beccaria di Milano, incontrando migliaia di detenuti: ragazzi finiti in cella per reati minori, tossicodipendenti, “colletti bianchi“ degli anni di Tangentopoli, ergastolani con diversi omicidi alle spalle, persone condannate per associazione mafiosa.
Aparo ha dato vita al Gruppo della Trasgressione, che punta al recupero dei detenuti attraverso l’auto-percezione delle responsabilità e la presa di coscienza dei reati commessi. “Invece di creare ‘carceri per pazzi’, nuovi posti nelle Rems per parcheggiarli – osserva – bisognerebbe investire tempo e denaro per fare in modo che un delinquente possa diventare un cittadino. Questa è la strada più lunga e difficile, ma va percorsa”.
Aparo, rispetto alla fine degli anni ’70 come ha visto cambiare le condizioni nelle carceri?
“Un cambiamento macroscopico è legato all’origine geografica dei detenuti. Quando ho iniziato a lavorare provenivano in gran parte dal Sud Italia, mentre nel corso degli anni ha iniziato a entrare una quota sempre più rilevante di stranieri. Fino ai primi anni ’90, inoltre, c’era un’enorme quantità di detenuti con l’Aids, nella maggior parte dei casi con dipendenza da eroina, che al loro ingresso, per le loro condizioni fisiche, apparivano come “morti che camminano“. Oggi, rispetto al passato, è molto più diffusa la cocaina. Quello che è rimasto invariato è il cronico sovraffollamento delle strutture”.
Ha notato un aumento del disagio psichico?
“Andrebbe fatta una distinzione fra problemi psichici conclamati e diagnosticati, riguardanti una minoranza di detenuti, e fragilità mentali che riguardano invece quasi tutte le persone che commettono dei reati, amplificate dalla vita nel penitenziario. Una malattia sociale, che diventa individuale. Il “rimedio“ applicato è quello di distribuire psicofarmaci a tutto andare, anche a persone che non ne avrebbero bisogno, solo per garantire la quiete”.
Quale strada bisognerebbe percorrere?
“È fondamentale che il carcere non si riduca a un parcheggio dove meditare sugli errori commessi, per poi uscire peggiori di prima, ma bisogna agire, studiare e lavorare perché un delinquente diventi un cittadino. Servono investimenti, risorse, approcci innovativi”.
Si sta investendo, secondo lei, in questa direzione?
“Le carceri milanesi, pur con tutti i loro problemi, sono più avanti rispetto ad altre realtà d’Italia, con una miriade di iniziative, un volontariato molto presente. San Vittore è più problematico anche per ragioni strutturali: è una casa circondariale che ospita detenuti di passaggio, dove è molto più difficile pensare a dei progetti di ampio respiro. Quando un detenuto si suicida lo fa perché non vede un futuro davanti, una possibilità di svolta. Fino al 2023 potevo affermare, con un certo orgoglio professionale, che nessuno fra i detenuti seguiti da me aveva compiuto questo passo. Quell’anno si è tolto la vita Rosario Curcio (tra i condannati all’ergastolo per l’omicidio di Lea Garofalo, ndr), che qualche mese prima aveva smesso di frequentare il Gruppo della Trasgressione”.
Qual è il suo approccio con i detenuti?
“È diverso da quello di uno psicologo tradizionale. Mi rivolgo a loro in modo frontale e schietto, anche aggressivo. Non chiedo che reato hanno commesso, ma piuttosto di spiegarmi come hanno fatto a diventare uomini così. Li induco a parlare di quello che sentono. Le persone partecipano, si aprono, perché si sentono amate e rispettate”.