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Chi è Matteo Messina Denaro, il boss latitante più inseguito del mondo

A vent'anni divenne il pupillo di Totò Riina, dopo la sua morte è il capo delle Mafia. L'ultima volta apparve a Forte dei Marmi nell'estate dinamitarda del '93

I due volti di Matteo Messina Denaro nelle immagini mostrate dal Tg2

I due volti di Matteo Messina Denaro nelle immagini mostrate dal Tg2

Primula rossa, grazie a molteplici coperture, anche di altissimo livello. Ma chi è Matteo Messina Denaro, il “numero uno” tra i latitanti italiani, oggi uno dei maggiori ricercati al mondo? Sebbene dopo la morte di Salvatore Riina  sia stata messa in dubbio un’organizzazione piramidale di Cosa nostra, molti inquirenti  si riferisconoal latitante castelvetranese come all’attuale capo assoluto della mafia. L’ultima volta che qualcuno vide libero il capo di Cosa Nostra era durante una vacanza a Forte dei Marmi, nell’agosto del 1993, con suoi fidatissimi amici Filippo e Giuseppe Graviano. Nei giorni degli attentati dinamitardi che diedero la stura alle ipotesi di trattativa Stato-mafia. Poi, almeno in via ufficiale, più nulla. 

Le origini

La sua vita e gli episodi che la costellano sono talmente intricati che farne una sintesi risulta comunque un atto approssimativo. Nato a Castelvetrano (Trapani) nel 1962, nella valle del Belice (proprio la zona in cui si sono concentrate oggi le sue ricerche), lì ha frequentato le scuole fino a che non si è ritirato dall’Istituto tecnico commerciale Ferrigno di Castelvetrano. All’anagrafe Matteo è figlio di Francesco Messina Denaro, fratello di Patrizia e zio di Francesco Guttadauro. Insieme al padre, Messina Denaro svolgeva l’attività di fattore presso le tenute agricole della famiglia D’Alì Staiti, già proprietari della Banca Sicula di Trapani, all’epoca il più importante istituto bancario privato siciliano, e delle saline di Trapani. Il suo padrino di cresima è Antonino Marotta, “uomo d’onore” ed ex affiliato alla banda di Salvatore Giuliano, coinvolto anche nella misteriosa morte del bandito

La prima faida

Nel 1989 fu denunciato per associazione mafiosa perché ritenuto coinvolto nella sanguinosa faida tra i clan Accardo e Ingoglia di Partanna. Nel 1991 si rese inoltre responsabile dell’omicidio di Nicola Consales, proprietario di un albergo di Triscina, che si era lamentato con la sua impiegata austriaca (che era anche l’amante di Messina Denaro). Negli anni successivi il collaboratore di giustizia Baldassare Di Maggio dichiarerà che si trattava di «un giovane rampante, anche se non è già capo, e suo padre gli ha dato un’ampia delega di rappresentanza del mandamento» (il padre era infatti latitante dal 1990). Nel 1992 fece parte di un gruppo di fuoco, composto da mafiosi di Brancaccio e della provincia di Trapani, inviato a Roma per compiere appostamenti nei confronti del presentatore televisivo Maurizio Costanzo e per uccidere Giovanni Falcone e il ministro Claudio Martelli.

Il richiamo di Riina

Qualche tempo dopo, però, il boss Salvatore Riina fece ritornare il gruppo di fuoco, perché voleva che l’attentato a Falcone fosse eseguito diversamente. Nel luglio 1992 Messina Denaro fu tra gli esecutori materiali dell’omicidio di Vincenzo Milazzo (capo della cosca di Alcamo), che aveva cominciato a mostrarsi insofferente all’autorità di Riina; pochi giorni dopo, Messina Denaro strangolò barbaramente anche la compagna di Milazzo, Antonella Bonomo incinta di tre mesi. In seguito, Messina Denaro fece anche parte del gruppo di fuoco che compì il fallito attentato al vicequestore Calogero Germanà, a Mazara del Vallo, nel settembre 1992.

La strategia delle bombe

Dopo l’arresto di Riina, Messina Denaro fu il capofila dell’ala favorevole alla continuazione della strategia degli attentati dinamitardi, insieme ai boss Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e ai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. Mise infatti a disposizione un suo uomo, Antonio Scarano (spacciatore di droga di origini calabresi residente a Roma), per fornire supporto logistico al gruppo di fuoco palermitano che compì gli attentati dinamitardi a Firenze, Milano e Roma, che provocarono in tutto dieci morti e 106 feriti, oltre a danni al patrimonio artistici.

La passione per la cyclette

Di lui si sanno un po’ di cose. Anzitutto che soffre un po’ di strabismo, che adora i dolci alla ricotta e che passa molte delle sue ore da latitante a giocare ai videogiochi (testimonianza di alcuni pentiti) e a fare puzzle (fece contattare una ditta produttrice da un suo fedelissimo per recuperare un pezzo mancante), che lo chiamano u siccu, il magro, e che lui si è dato da solo il soprannome di Diabolik. Si sa anche che ha rinunciato a malincuore alle iniziali cucite sui polsini delle camicie, potenziale indizio sulla sua identità, e che, sempre parola dei pentiti, si tiene in forma con la cyclette.

La Porsche e il Daytona

Avrebbe sempre voluto studiare, dice chi lo ha conosciuto. ma ciò che distrasse Messina Denaro fu seguire le orme del padre, Francesco, don Ciccio, boss mafioso di Castelvetrano legato da una stretta alleanza ai corleonesi di Totò Riina, il clan vincente degli anni Ottanta e Novanta. A vent’anni Messina Denaro divenne così il pupillo di Totò Riina. Era già un mafioso però prendeva l’indennità di disoccupazione dall’Inps, e se ne vantava. Andava in giro con una Porsche, si vestiva Armani, al polso aveva un Rolex Daytona.

Il ruolo di Borsellino

Fu Paolo Borsellino, nel 1989, a iscrivere per la prima volta il suo nome in un fascicolo d’indagine. Un commissario di polizia di Castelvetrano, Rino Germanà, iniziò a indagare su quel ragazzo: quel ragazzo decise di ucciderlo. Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, a bordo di una Fiat Tipo, intercettarono Germanà sul lungomare di Mazara del Vallo. Iniziarono a sparare, il commissario rispose al fuoco, uscì dalla macchina e si gettò in mare inseguito da Bagarella il cui Kalašnikov si inceppò. Anni dopo Giovanni Brusca, come ricorda sempre il libro di Di Girolamo, disse durante l’udienza di un processo: «Bagarella le armi moderne non le sa usare». 

Nella lista dei ricercati

Dopo quell’attentato, Messina Denaro divenne definitivamente latitante e il suo nome è iscritto nella lista dei ricercati dal 2 giugno 1993. A quel punto era già diventato il capo di Cosa Nostra nella provincia di Trapani, leader indiscusso delle nuove leve. I soldi arrivavano dalle estorsioni: per gran parte dei contratti, accordi, transazioni nella zona del trapanese, una percentuale doveva essere versata ai Messina Denaro. Il 27 luglio 2010 il collaboratore di giustizia Manuel Pasta dichiarò che Messina Denaro, nonostante le estenuanti ricerche e gli arresti di appartenenti alla sua cerchia, avrebbe visto con alcuni mafiosi palermitani la partita di calcio Palermo-Sampdoria allo stadio Renzo Barbera il 9 maggio 2010. 

Allo stadio per il meeting

La partecipazione alla partita sarebbe stata solo una parte di un incontro tra il latitante e altri capi della provincia, per discutere sull’organizzazione di nuovi attentati dinamitardi contro il palazzo di giustizia e la squadra mobile di Palermo, in risposta ai numerosi arresti contro esponenti mafiosi. Tanto che nel 2010 Messina Denaro è stato inserito dalla rivista Forbes nell’elenco dei dieci latitanti più pericolosi del mondo. Le indagini sulla sua fuga hanno portato anche a Milano, dove alcuni uomini legati alla ‘ndrangheta e al narcotraffico potrebbero costituire la sua rete di protezione che gli permette di essere latitante.

La liaison con la Magliana e la mafia Usa

Nel febbraio 2020, dopo la cattura del boss Salvatore Nicitra, uno dei capi della Banda della Magliana, le indagini hanno portato anche a Roma, perché Nicitra aveva forti legami con Cosa nostra di Agrigento, che si ritiene finanzi la latitanza di Messina Denaro. Nicitra era attivo nel settore del gioco d’azzardo e delle slot-machines, e aveva legami con dei boss albanesi. Tra il 15 e 20 giugno 2020 vengono arrestati numerosi fiancheggiatori di Messina Denaro, dapprima Francesco Domingo ritenuto boss di Castellammare del Golfo ed al vertice tra le articolazioni mafiose trapanesi e di collegamento con Cosa nostra statunitense. 

Il postino e l'ergastolo

Insieme a lui sono state denunciate 11 persone ed indagato pure il sindaco della città Nicola Rizzo. Infine è stata perquisita la residenza anagrafica del boss latitante a Castelvetrano ed indagate a vario titolo 15 persone tra la Sicilia e Caserta, mentre tra gli arrestati figurano Giuseppe Calcagno che svolgeva il compito di “postino” nella consegna degli ordini tramite pizzini e Marco Manzo che rappresentava Matteo Messina Denaro nelle varie riunioni dell’organizzazione criminale. Il 21 ottobre 2020, infine, il boss viene condannato all’ergastolo dalla Corte D’Assise di Caltanissetta per essere stato uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma fino a qui, ogni sua ricerca è stata vana.