BARBARA CALDEROLA
Cronaca

Infermieri dal Perù a Vimercate: “Mai pregiudizi dai colleghi. Ma valorizzateci di più”

Alicia, 36 anni, ha vinto il concorso nel 2011: oltre ai soldi serve considerazione

L'ospedale di Vimercate

L'ospedale di Vimercate

Vimercate (Monza) – L’assessore Guido Bertolaso pensa di risolvere la cronica carenza di infermieri negli ospedali lombardi importandoli dal Sudamerica e dai Paesi del Mediterraneo. Alicia Sanchez Sotomayor, nata e cresciuta a Lima, in Perù, ha fatto il contrario. È arrivata in Brianza da giovanissima, sulle orme della madre che si era trasferita qui da tempo, si è diplomata e laureata e nel 2011 ha vinto il concorso, a Vimercate, dove è in servizio da allora. Ha 36 anni ed è un’esperta di Wound care, cura delle ferite cutanee.

Come è stato l’impatto con la scuola?

"Difficile. Ho dovuto allungare il percorso alle superiori per parificare i miei studi a quelli italiani. I rapporti con i compagni non sono stati una passeggiata, questione anche d’età, probabilmente. Ma allora non lo capivo. Ho sempre vissuto con la paura di essere considerata diversa per il colore della pelle e per le difficoltà con la la lingua. Al liceo tecnologico Einstein di Vimercate ho trovato però insegnanti che mi hanno sempre aiutata. I professori sono stati un punto di riferimento".

Perché ha deciso di diventare infermiera?

"È il mestiere di mia mamma, quello che ho visto da vicino fin da bambina. Lei era generica, una figura che oggi non esiste più. Lavorava in una clinica ostetrica. Sono cresciuta con il desiderio di occuparmi di chi soffre".

Così si è laureata.

"Sì alla Statale di Milano e il percorso è stato più semplice, un po’ perché ero diventata più grande anch’io e quindi ero più sicura".

Si è anche specializzata.

"Con un primo master e sto per finire il secondo, a Torino".

Ha dovuto fare i conti con pregiudizi dei colleghi?

"No, anzi. Mi hanno sempre teso la mano".

E i malati?

"Pure. Ci inviano tanti biglietti affettuosi. Capitano persone difficili, ma non c’entra il fatto che io arrivi da un altro Paese (Alicia adesso è italiana, ndr)".

Ha messo su anche famiglia.

"Sì. Ho un marito e due bambini. I figli degli infermieri devono fare subito i conti con i ritmi del nostro lavoro: notti e festivi fuori casa, non è semplice per loro, né per noi mamme conciliare vita privata e professione. È una sfida aggravata da stipendi magri che non permettono di ricorrere all’asilo nido costringendo colleghi sposati ad avvicendarsi nei turni per occuparsi dei ragazzi. Una situazione che molti di noi senza aiuto dei nonni vivono tutti i giorni e che porta alla luce uno dei nodi della penuria di figure come le nostre".

Scarsa remunerazione?

"Esatto. Come dimostrano le dimissioni di massa per andare nel privato, o addirittura all’estero dove chi ha la nostra qualifica è più pagato. Ma non credo che questo sia il punto centrale".

E allora quale è?

"La scarsa considerazione nella quale siamo tenuti. Ancora troppo spesso siamo visti come un’appendice del medico e non come professionisti autonomi con compiti diversi. È un problema culturale. Questo sì è un preconcetto duro a morire. La diaspora nasce dalla scarsa valorizzazione. E infatti alla Regione direi di partire proprio da qui".

Un consiglio a Bertolaso dall’interno?

"Dovrebbero gratificarci, riconoscere il nostro ruolo. È questo il problema. Un po’ come succede con gli insegnanti. Con noi lo fanno solo i pazienti, tanti di loro apprezzano le nostre capacità. Questo poi dovrebbe tradursi in un aumento in busta paga, ma il primo passo è la valorizzazione. Sono sicura che così molti resterebbero".

Lei se ne andrebbe?

"Mai. Amo troppo quello che faccio. Ma certe volte è davvero difficile".