Milano, caso Gucci. Parla Ivano Savioni, condannato a 20 anni

"Patrizia Reggiani? Una donna molto sola". "Il film di Ridley Scott? Quante invenzioni"

Ivano Savioni con i suoi avvocati

Ivano Savioni con i suoi avvocati

"Non ho visto il film di Ridley Scott sul caso Gucci e non voglio neanche vederlo. O meglio. Un mio amico lo ha scaricato e mi ha fatto vedere l’ultimo quarto d’ora, quello dove compaio io. Mi sono girate. Patrizia Reggiani e Pina Auriemma che arrivano con la borsa del malloppo e me la buttano addosso. La Pina che minaccia di farci il malocchio se non riusciremo a eliminare Maurizio Gucci. Ma quando mai? Se volete fare le cose, almeno fatele bene". Ivano Savioni ha quasi sessantasei anni. Alle spalle una condanna a vent’anni e sei mesi di carcere per concorso nell’omicidio di Maurizio Gucci con l’accusa di essere stato il tramite fra Patrizia Reggiani, mandante, e i killer che eliminarono l’ex marito. Ha trascorso in cella una quindicina di anni. Da tempo è un uomo libero. Mentre parla ha vicino i suoi avvocati, Mauro De Martino e Ombretta Fapulli.

Perché era stato soprannominato Sauvignon? "Se lo sono sognato. Mai avuto quel soprannome. Sauvignon è un vino pregiato. Io sono astemio".

Come andò l’”affare” Gucci? "Per anni non ho voluto dire niente. Alla fine mi sono scocciato di sentirmi definire organizzatore, basista e altro dell’omicidio di Maurizio Gucci. Giuseppina Auriemma, napoletana, era la zia della migliore amica di mia moglie. Sapeva che ero a Milano e mi venne a trovare. Mi disse che c’era una sua amica, una signora, che avrebbe avuto piacere di togliere di mezzo il marito. Pensai che era un’occasione per portare via un centinaio di milioni di lire a una che aveva i miliardi. Era chiaro che la cosa era da perfezionare per renderla credibile. Ma per me doveva essere solo un bidone per farci un po’ di soldi. Nessun omicidio. Ne parlai a Orazio Cicala, un siciliano che aveva un ristorante ad Arcore. Gli portai la Pina".

Poi conobbe Patrizia Reggiani. "Ci furono degli incontri. La prima volta, in un bar nel centro di Milano, tirò fuori una lettera dicendo che era dello zio dell’ex marito che le chiedeva di prendere in mano l’azienda. Si offerse di farmela leggere. Guardi, le risposi, che non sono qua per questo. Lei mi chiamava nell’albergo di mia zia, in via Lulli, dove alloggiavo quando era a Milano. Ci vedevamo a pranzo a Brera. Una volta ci incontrammo a casa sua. Lei pressava. Noi prendevamo tempo. Nel frattempo la Reggiani ci aveva messo dei soldi, forse un duecento milioni, soprattutto in tranche da venti. L’operazione era fissata per seicento milioni".

Che impressione ricevette dalla Reggiani? "Quella di una persona molto sola".

Alla fine quanto guadagnò in tutta l’operazione? "Più o meno mi passarono per le mani centocinquanta milioni. Me ne rimasero trenta o quaranta. Il resto lo avevo dato a Cicala che per la sua passione per il gioco aveva due miliardi di debiti ed era inseguito dagli usurai".

Quando seppe dell’omicidio di Maurizio Gucci? "La mattina del 27 marzo 1995 ero in fila al casello di Brescia Ovest. La radio diede la notizia dell’uccisione di Gucci e di un’altra persona. Per fortuna, almeno la seconda parte non era vera e il portiere dello stabile di via Palestro era vivo. Mi venne un colpo. Il giorno dopo mi precipitai da Cicala. Mi rassicurò che tutto era fatto e io ero sempre dentro l’affare. Conclusione: ero stato tagliato fuori e la cosa aveva camminato a mia insaputa".

Nell’albergo della zia arrivò una coppia e Gabriele, il marito, divenne suo amico. È vero che si lasciò andare a confidenze con lui, si lamentò di avere ricevuto soltanto cinquanta milioni, che gli parlò del silenziatore della pistola confezionato artigianalmente, delle pallottole acquistate in Svizzera? "Assolutamente non vero. Era con me tutti i giorni e aveva capito qualcosa. Aveva visto la Pina. Aveva sentito che chiamava la Reggiani. Contattò la Criminalpol, ci avrà provato una ventina di volte perché all’inizio, per quanto ne so, non se lo filava nessuno. Al ritorno da un mio viaggio a Napoli mi chiese in prestito l’auto perché doveva ritirare una partita di pesce. Me la riportò imbottita di microspie. Alcuni giorni dopo arrivò Carlos. Gabriele me lo presentò come un narcos colombiano che aveva conosciuto in Sud America. Parlava uno spagnolo perfetto, ma era un ispettore della Criminalpol. Non gli feci nessuna confidenza, con lui parlavo solo di cavalli. Io e la Pina venimmo intercettati mentre commentavamo la notizia apparsa su un giornale di una proroga delle indagini sul caso Gucci. “Mi puzza – le dissi”. Era il 27 gennaio 1997. Quattro giorni dopo mi arrestarono".

Se un giorno incontrasse per strada Patrizia Reggiani, cosa le direbbe? "Non avrei nessun problema a salutarla. Perché non dovrei?".

Savioni, lei ha scritto un libro. Lo ha fatto per raccontare la sua verità? "Non la “mia” verità: la verità".