
Analisi di laboratorio
Milano, 18 dicembre 2019 - Dna dato incontrovertibile, inattaccabile, secondo la scienza e una vulgata popolare ormai radicata. Ma non sempre il fattore scientifico sul codice genetico si è tradotto in prova processuale. A volte si è rivelato improduttivo, altre si è risolto in una sorta di beffa.
Un Dna maschile, nitido e leggibile, è rimasto sul lembo della busta che conteneva la prosa anonima “In morte di un’amica”, recapitata alla famiglia di Lidia Macchi il 10 gennaio del 1987, giorno dei funerali della studentessa trucidata con 29 coltellate nella zona di Cittiglio. Gli esami hanno escluso che appartenesse a Stefano Binda, indagato, arrestato, processato, o al padre, o a un altro suo familiare. Non c’erano sue tracce biologiche sui sedili della Panda a bordo della quale fu assassinata Lidia. Non gli appartenevano i quattro capelli trovati nella zona pubica della vittima. Lo scorso luglio i giudici dell’Appello milanese hanno cancellato l’ergastolo inflitto dall’assise di Varese e assolto Binda per non avere commesso il fatto. Ancora un Dna nella cupa saga del delitto Macchi. Un profilo femminile, rimasto senza nome, su una busta spedita alla famiglia da Vercelli il 21 gennaio 1987. La missiva che conteneva era firmata “Una mamma che soffre”.
A giugno del 2017 è uscito di scena l’ultimo (e unico) indagato per la morte di Arianna Zardi. Il test del Dna era risultato negativo per Giulio, ormai trentenne, ancora minorenne all’epoca dei fatti. Quel giorno di domenica 30 settembre del 2001 Arianna Zardi, 25 anni, iscritta al primo anno di Teologia a Brescia, era uscita dalla sua abitazione di Casalbellotto, frazione di Casalmaggiore. Il corpo era stato ritrovato due giorni dopo sotto il ponte di un canaletto di irrigazione, alto circa cinque metri, fra Motta Baluffi e Torricella del Pizzo. Piena campagna. Il caso era stato riaperto come omicidio dal procuratore di Cremona, Roberto di Martino, che aveva fatto esumare il cadavere. Per il Dna era stato prelevato il campione salivare di una trentina di amici e conoscenti della morta. Caccia alla corrispondenza delle tracce e la volontà di far coincidere la ricerca scientifica con l’indagine pernale. Una speranza frustrata dai risultati.
Gianluca Bertoni è uno studente universitario di 22 anni. Scompare da Somma Lombardo la sera del 7 dicembre 1990. Viene ritrovato l’11 gennaio 1991 nel lago Maggiore, a Ranco, incaprettato, chiuso in un sacco di plastica, legato a sua volta a una grossa pietra con una corda. Nel 2009 quella che parrebbe una svolta. Viene analizzato il Dna rimasto sul sacco e sui nastri adesivi serviti a sigillare il cadavere. Due nomi finiscono nel registro degli indagati, evidentemente per la necessità di eseguire un confronto scientifico. Dopo quella che sembrava una svolta, però, solo altri anni di silenzio.
Senza un colpevole anche l’assassinio di Marilena Negri, 63 anni, uccisa con una coltellata al collo la mattina del 23 novembre di due anni fa a Milano, nel parco di Villa Litta, mentre portava a spasso il cane in una mattinata tranquilla. Una traccia di Dna, trovata accanto al collo dell’uccisa, si è rivelata una pista sbagliata. Anche la persona che le telecamere avevano visto in zona non era in realtà coinvolta. E il caso resta senza soluzione.