
Romano Paolucci, 65 anni
Casalmaggiore (Cremona), 12 arile 2020 - Medico in Kosovo. Ogni anno in Etiopia con una missione di ortopedici pediatri. Medico all’ospedale Oglio Po, direttore del 118. Direttore al servizio di anestesia alla Casa di cura San Camillo di Cremona. Per Romano Paolucci, 65 anni, di Casalmaggiore, quella di dimenticare di essere in pensione da due anni è un’abitudine quotidiana. Emergenza Coronavirus. “Arruolato” in poche ore. Il dolore, l’angoscia, i decessi. Il suo lutto privato con la perdita della madre. L’ospedale di Oglio Po che pare ogni giorno pare al collasso e miracolosamente riesce a fare fronte. I pazienti sulle poltrone attaccati ai respiratori. I problemi per l’ossigeno. Il suo incontro con il virus la quarantena.
Quando è iniziata? "Sono stato chiamato la mattina del 6 marzo. Alle tre del pomeriggio era in prima linea del reparto di Medicina dell’ospedale di Oglio Po. I pazienti arrivavano dal pronto soccorso. Era un flusso continuo. Mi sono trovato con cento ricoverati che gremivano le tre sezioni del reparto e l’area chirurgica in bassa intensità. Cercavamo di fare una specie di preselezione per quelli da inviare in terapia intensiva. Il problema era quando si sviluppava la polmonite e il paziente faticava a respirare". Subito emergenza? "Piena emergenza. Su cento pazienti almeno la metà aveva necessità di ventilazione. Si reperiva tutto quanto era possibile. Prima abbiamo utilizzato le mascherine dell’ossigeno, poi i caschi Cpap. Quando sono finiti anche i caschi abbiamo attrezzato le mascherine da sub". Fra i tanti ricordi di quelle giornate quale le è rimasto più impresso? "L’ospedale era chiuso. I ricoverati e i loro parenti non potevano vedersi. Era una cosa pesantissima, terribile. Persone che respiravano male e ne vedevano altre con lo stesso problema, se non peggio. O le vedevano morire. C’erano intere famiglie ricoverate, genitori, figli. Se si trovavano separati ci chiedevano notizie del loro congiunto, lo mandavano a salutare e qualcuno intanto era mancato. Noi correvamo da un letto all’altro, due parole per rincuorarli. Capitava di incoraggiare una persona alla mattina e vederla morire alla sera. Con il paziente c’è sempre un rapporto empatico. Qui il sovraffollamento lo rendeva impossibile. Dovevamo preoccuparci solo di farli respirare". Per quanti giorni ancora? "Non li ho contati. Sarà stato il 13 marzo quando sono sceso al pronto soccorso. C’erano i pazienti in corridoio sulle poltrone, dove c’era la possibilità di agganciarsi all’ossigeno. L’ossigeno andava a tutto spiano e l’impianto non era fatto per un consumo così alto. A un certo punto non avevamo più l’erogazione corretta". E poi il contagio. "Il 20 marzo ero in reparto e mi girava la testa. Ho pensato alla stanchezza. Mi hanno misurato la pressione. È arrivato il cardiologo. Avevo mia mamma ricoverata, è mancata lo stesso giorno. Mi hanno fatto la Tac. Avevo una polmonite. Il tampone era negativo, si è positivizzato in seguito". Adesso come sta? "Ho fatto il tampone lunedì. Fra qualche giorno riprendo".