FRANCESCO DONADONI
Cronaca

Bergamo, morta bruciata legata al letto d'ospedale: due a giudizio

"Per negligenza e imperizia" avrebbero cagionato la morte di Elena Casetto che perse la vita a 19 anni in un reparto di Psichiatria

Elena Casetto, morta carbonizzata a soli 19 anni in un letto in un letto dell’ospedale

Bergamo - Una fine orribile , tremenda. Morta carbonizzata a soli 19 anni in un letto del reparto di Psichiatria dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. Era la mattina del 13 agosto 2019. Si chiamava Elena Casetto. Ora per quella tragedia due persone sono state rinviate a giudizio per omicidio colposo. Secondo la tesi della procura, avrebbero cagionato l’incendio della stanza di degenza, degli arredi e degli impianti che si trovavano all’interno.

Un fatto commesso "per colpa consistita in negligenza e imperizia". In pratica, a causa di un intervento giudicato tutt’altro che impeccabile. La decisione ieri in udienza preliminare (gup Lucia Graziosi), il fascicolo è del pm Letizia Ruggeri. Il 22 settembre ci sarà il processo. Si tratta di Alessandro Boccamino e Eugenio Gallifuoco, il primo di Lissone, il secondo di Paderno Dugnano, all’epoca dei fatti dipendenti dell’impresa Gsa spa appaltatrice del servizio all’ospedale cittadino. Uno non lavora più per quella ditta. Sono difesi dagli avvocati Stefano Buonocore di Udine e dalla collega Francesca Privitera di Milano. Occorre anche ricordare che Il garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale era stato ammesso come parte civile (rappresentata dall’avvocato Enrico Pelillo). Una vita breve, quella di Elena Casetto, ma già segnata dal male di vivere. Aveva vissuto per anni a Salvador de Bahia, in Brasile, Paese di origine della madre, studiava, era autonoma poi era tornata in Italia perché non voleva più restare in Brasile e aveva il desiderio di raggiungere la madre. Che nel frattempo aveva trovato una sistemazione a Osio Sopra.

Elena era ricoverata in Psichiatria dopo un tentativo di suicidio. Infine la mattina del 13 agosto l’incendio nella sua stanza, con le fiamme che la avvolgono. Un boato sordo, una lunga scia annerisce un angolo della Torre 7. Quando arrivano i soccorsi per lei è troppo tardi. Dall’autopsia era emerso che la 19enne aveva sul corpo un accendino bruciato. Secondo gli inquirenti, i due addetti della squadra antincendio, una volta ricevuto l’allarme dal Centro Gestione Emergenze, si sarebbero recati al terzo piano della torre 7 sprovvisti di ogni dispositivo di protezione individuale. Appena constatata l’entità dell’incendio (l’intera ala, 80 pazienti, era stata evacuata) non sarebbero stati in grado di farvi fronte seguendo le procedure previste dal Piano di Emergenza dell’ospedale. Per la procura Gallifuoco, in particolare, sarebbe uscito dal reparto di psichiatria 1 minuto e 52 secondi dopo esservi arrivato, scendendo al piano terra dove si trovava il furgone della ditta con le dotazioni antincendio e i dispositivi di protezione. Secondo l’accusa non si sarebbe mosso tempestivamente, indugiando nelle manovre di vestizione per oltre 4 minuti, rientrando in reparto oltre 6 minuti dopo esservi uscito.

Nel frattempo le fiamme divampavano. Mentre il collega anziché usare l’idrante a muro più vicino (che secondo quanto ricostruito dalla procura si sarebbe trovato di fronte alla stanza), avrebbe tentato di spegnere le fiamme con un estintore senza alcun esito. I due avrebbero continuato ad utilizzare altri estintori, per poi raggiungere un idrante a muro posto a più di 30 metri dall’ingresso della stanza della giovane. Una manovra inutile, anche perché la lunghezza della manichetta non superava i 20 metri. Una volta realizzato che l’incendio non era stato domato, gli addetti avrebbero esitato anche a richiedere l’intervento dei vigili del fuoco. Un intervento che la procura ha bollato nel complesso "inadeguato" e che non avrebbe aiutato a contrastare il propagarsi delle fiamme. La paziente è poi morta a causa dell’inalazione di fumi, vapori bollenti e allo shock termico.