
La miniera di carbone di Marcinelle avvolta dalle fiamme
Ancora pochi anni e il Bel Paese vivrà il miracolo laico del boom. Centotrentasei italiani non lo vedranno. Marcinelle, centro minerario belga a poca distanza da Charleroi. La miniera di carbone di Bois de Cazier, appena fuori Marcinelle. Alle 8.10 dell’8 agosto 1956 due carrelli rimangono incastrati in una gabbia a 975 metri di profondità. Nel risalire urtano e provocano il distacco di una trave che nella caduta trancia due cavi elettrici e tubi di olio e aria compressa. La formazione di archi elettrici, originati dai due cavi danneggiati, provoca l’accensione dell’olio nebulizzato. Divampa un incendio immane che riempie di fumo l’intero impianto sotterraneo. Alle tre di notte del 22 agosto, dopo l’ultima risalita delle squadre di soccorso, una voce grida in italiano: «Tutti morti». Su 274 uomini in turno hanno perso la vita in 262, per le ustioni, il fumo, i gas tossici: 136 italiani, 95 belgi, 8 polacchi, 6 greci, 5 tedeschi, 3 francesi, 3 algerini, 2 ungheresi, un inglese, un olandese, un russo, un ucraino. Sono 248 le famiglie colpite, 420 gli orfani.
Nembro, 4 agosto 2016 - Sono rosei, quasi vezzosi. Parole a caratteri cubitali, in nero. I manifesti tappezzano muri e cantonate. È un bando di arruolamento. Da Bruxelles, la Federazione Carbonifera Belga cerca operai italiani per le miniere nel Paese di re Baldovino. Salario minimo giornaliero per gli «operai adulti» (perché in miniera scendono anche i bambini) 3.554 lire, salario medio 3.949, un «premio temporaneo», assegni familiari, mutua, pensione. «Approfittate - invita il manifesto - degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori. Il viaggio è gratuito per i lavoratori italiani firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere, e dura in ferrovia solo 18 ore. Completate le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio». È un canto di sirene. Chi parte non sa che quella campagna è stata organizzata perché la manodopera belga ha disertato le miniere di carbon fossile. Ignora di essere merce di scambio: l’Italia riceve due sacchi di carbone per ogni emigrante che va a immergersi in una miniera.
«Charbonnage» in Belgio per ventiquattro anni. Minatore per sempre. Nella sua casa di Nembro, in Bergamasca, Lino Rota ha creato il Museo della miniera. Un sacrario, un reliquario di oggetti e ricordi messo assieme in vent’anni partendo dal carrello che si era fatto regalare dall’ingegnere della sua miniera. Anche Lino, solido diciottenne, figlio di un boscaiolo, legge il manifesto rosa e sale sul treno da Milano Centrale a Charleroi. È il 1947. Viene destinato alla miniera di Souret. Sulla medaglia che lo identifica, sul casco e sulla lampada, il numero 665. Nove anni dopo vivrà la tragedia di Marcinelle da testimone-protagonista. «Facevo il turno di notte, dalle dieci di sera alle sei del mattino. Ero capo di una squadra di diciotto uomini. Sono risalito verso le sei e mezzo, ero sotto la doccia. È venuto di corsa un impiegato: ‘Rota, devi venire subito in ufficio. C’è l’ingegnere che ti vuole parlare’. ‘Rota, si prepari. Deve partire d’urgenza’, mi ha detto l’ingegner De Tes. Erano stati chiamati anche gli altri due che come me avevano fatto il corso di ‘secouriste des mines’, soccorritore. Siamo partiti alle nove e qualcosa su un mezzo della società. Ci hanno portati alla centrale di Marcinelle, distante una dozzina di chilometri, a prendere aspiratori, lampade, tutto il necessario. Alla miniera c’erano già delle squadre al lavoro. Il capo di quella di Marcinelle era Angelo Galvan, un italiano, poi è morto di silicosi come tanti minatori. Le prime voci parlavano di 300 ‘musi neri’ rimasti prigionieri nel Bois de Cazier, a un chilometro di profondità».
«La miniera era in fiamme. I primi soccorritori si sono calati fino a 200 metri e sono stati costretti a desistere. Intanto, lì sotto, la gente bruciava. Era tutto il turno di giorno, appena entrato in servizio. I pozzi erano due. Uno per immettere l’aria, l’altro per aspirarla. Il secondo pozzo era invaso dal fumo. Per fortuna c’era un terzo pozzo in costruzione, arrivato a 870 metri. Sono scesi di lì, hanno abbattuto un muro di bitume e altro e si sono trovati nel pozzo della disgrazia. Il primo a calarsi è stato Galvan. Io sono sceso verso le 11 con una quadra di sei uomini, due alle volta. C’era ancora fuoco. Scavalcavamo i corpi bruciati e le carcasse dei cavalli che trainavano i carrelli. Angelo Galvan era sempre davanti a tutti: ‘Ragazzi, lasciamo stare i morti. Cerchiamo chi è ancora vivo’. Sentivamo delle urla, le seguivamo. Ne abbiamo trovati tre, si erano salvati dalle fiamme riparandosi sotto un carrello rovesciato. Uno non era riuscito a infilarsi del tutto, aveva le gambe bruciate ma era vivo. C’erano solo cadaveri, il volto annerito, sfigurato. Sicuramente si sono accorti che stavano per morire. Ci sono rimasto per quattro ore, sono sceso a 1.030 metri. Quando sono risalito, ho trovato giornalisti, fotografi. I familiari dei minatori erano tutti fermi davanti ai cancelli, in attesa. Ho fatto dodici discese in tutto, fino al 23 agosto».
Morire a Marcinelle, una settimana prima di compiere trent’anni. Assunto Benzoni è stato battezzato così perché è nato il 15 agosto, festa della Madonna Assunta. Bergamasco di Cerete Alto, emigra in Belgio nel 1951. Nel ‘54 sposa Giulia Andreoli. Ivonne ha un anno quando la vita del padre finisce arsa a Marcinelle. Pochi giorni dopo, il 31 agosto, nasce Assunta. Anche per lei il viaggio nella vita sarà breve, morirà a 29 anni. Nel ‘58 Giulia e le sue bambine tornano in Italia. Ivonne Benzoni vive a Piangaiano, frazione di Endine Gaiano. Il padre è sepolto nel cimitero del paese. «La mamma non parlava molto, però ci raccontava di lui. Io e mia sorella l’ascoltavamo senza fare domande. Ci chiedevamo come poteva essere stato quel papà che non avevamo conosciuto. Ci diceva che stava lavorando a più di mille metri sotto terra e che il suo corpo non era stato trovato subito. Quando l’hanno portato a Piangaiano era già il mese di dicembre».
Sono moltissimi i bergamaschi fra i quasi 50mila italiani reclutati a scaglioni nelle miniere belghe. Una coincidenza salva la vita a Vittorio Rondi, di Sorisole, emigrato a 19 anni, nel 1947. Due mesi prima della sciagura viene trasferito da Marcinelle alla vicina miniera di Fontanaveche. Nel ‘63 fa ritorno in Italia. Quattro anni dopo Marcinelle viene chiusa.