GABRIELE MORONI
Cronaca

Coronavirus: "A settant’anni in prima linea. È una missione"

Antonio Loda, è rientrato in servizio in una struttura con 230 posti letto, ma nessun tampone. E le mascherine le porta la gente

"Never give up", non mollare mai. Un post dell'ospedale Niguarda

Vertova (Bergamo), 20 marzo 2020 - «Ho sentito come un dovere quello di rientrare. Per me essere medico significa non tirarsi indietro, anche rischiando di persona". Settant’anni a settembre, in pensione dal 2013, Antonio Loda è uno dei medici che hanno voluto rientrare in servizio per fronteggiare l’emergenza Covid-19. Trascorre le sue giornate di lavoro (e di rischio) alla Fondazione Cardinal Gusmini di Vertova, una struttura importante, 230 posti letto, 280 unità di personale, Rsa, reparto Alzheimer, riabilitazione, hospice, quattro reparti per malattie psichiatriche, centro diurno per pazienti che arrivano in mattinata ed escono alla sera, servizi sul territorio. Per cinque anni è stato il direttore sanitario.

Dottor Loda, come ha deciso di tornare in servizio? "Ho incontrato il direttore sanitario, la dottoressa Melania Cappuccio. “Sono disperata”, mi ha detto. Su cinque dei suoi medici, quattro erano a casa con la febbre. Lei stessa era malata, ma aveva dato la reperibilità telefonica per le urgenze notturne. Senza pensarci le ho risposto: “Se hai bisogno, mi rimetto in campo”. In un momento così, il medico deve dare tutto quello che può a quelli che hanno bisogno di lui".

Che situazione ha trovato? "Per un po’ di tempo abbiamo lavorato in due medici, una neurologa e io. Adesso va meglio, sono rientrati due dei quatto medici che erano malati. Questa è una settimana dura e la prossima lo sarà ancora. Ci sono stati dei decessi. Abbiamo dei pazienti in fase terminale per Covid-19 diagnosticato con l’esame clinico e la radiografia del torace. Un aiuto importante per capire l’evoluzione della patologia ci è dato dal saturimetro, apparecchio che serve a valutare la saturazione in percentuale dell’ossigeno trasportato nel sangue dall’emoglobina: al 98% è normale, in fase terminale può scendere al 62-60%".

I tamponi? "Non ce ne hanno mai forniti, né a noi medici, né agli operatori. Tutte persone che hanno famiglia e alla sera tornano a casa. Nessuno di noi, medico o infermiere, è in grado di dire se ha contratto il virus. A nessuno è mai stato fatto il tampone. Io ogni giorno mi misuro la temperatura e controllo la saturazione dell’ossigeno. Sono quasi sicuro di avere incontrato il virus. Su 280 dipendenti 105 hanno avuto febbre e hanno dovuto assentarsi dal lavoro, in alcuni giorni erano a casa in 70. Nonostante tutto siamo riusciti a portare avanti la struttura. Dobbiamo ringraziare gli operatori e intendo medici, infermieri, personale ausiliario, addetti alla cura dei malati, alle pulizie, alla cucina e gli impiegati che si sono dedicati alla ricerca dei presìdi, introvabili”.

Le mascherine. "Le scorte si sono subito esaurite. Me ne hanno portate miei ex pazienti che hanno delle aziende. Oppure gente che è venuta ai cancelli e ha consegnato le mascherine alla Protezione civile. Senza l’altruismo di queste persone saremmo rimasti a zero. D’altra parte, non sarà un caso se nella Bergamasca 129 medici di famiglia sono a casa febbricitanti e 2 sono morti: sono entrati in contatto con malati senza avere i presidi di difesa".

E oggi? "Siamo sempre in contatto con il dottor Ripamonti, infettivologo del Papa Giovanni di Bergamo, che ci ha aiutato a redigere i protocolli farmacologici. Un aiuto essenziale. Abbiamo dato la disponibilità ad accogliere pazienti dimessi da altri ospedali che hanno superato la fase critica e devono essere seguiti. Per farlo abbiamo bisogno di mascherine e personale, che è introvabile, come le mascherine".

La sua giornata. "Inizia alle 8,30, con una pausa alle 13. Rientro verso le 17 e mi trattengo fino alle 20 la sera".