Omicidio Lidia Macchi, laurea in filosofia e l'eroina: lato oscuro del silenzioso Stefano

La madre di Lidia: se è lui confessi, non ci faccia riesumare il corpo di GABRIELE MORONI

Lidia Macchi studiava Giurisprudenza all'università (Newpress)

Lidia Macchi studiava Giurisprudenza all'università (Newpress)

Brebbia, 16 gennaio 2016 - «Se fosse colpevole, il dolore sarebbe ancora più grande sapendo che Lidia è stata uccisa da uno che frequentava la nostra casa. Gli rivolgo un appello: se è stato lui confessi, non ci faccia riesumare Lidia». L’avvocato Daniele Pizzi, legale ma soprattutto amico, ha portato la notizia dell’arresto a Paola Macchi, nella clinica di Varese dove assiste il marito Giorgio, da tempo malato. Omicidio aggravato dalla crudeltà, dai motivi futili e abietti, dalla «minorata difesa» della vittima. Si riavvolge il nastro del tempo. «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”». La poesia più disperata di Cesare Pavese. Viene ritrovata nella borsa di Lidia Macchi. Patrizia lo apprende dalla televisione. Era un cavallo di battaglia di Stefano, che non perdeva occasione per invitare a leggerla, spiegarla. Fra Lidia Macchi e Stefano Binda, minore di meno di un anno, esiste una solida conoscenza, cementata dalla militanza in Comunione e liberazione e dalla frequentazione del liceo classico di Varese, prima che il ragazzo si trasferisca in quello di Arona. «Sia io che Lidia – ricorda la sorella Stefania – conoscevamo bene Stefano Binda e gli eravamo affezionate, la frequentazione con Stefano è stata assidua sia da parte mia che di Lidia. Lidia lo stimava molto». Ha l'aplomb del giovane intellettuale ‘maledetto’. È coltissimo, particolarmente interessato alle discussioni filosofiche e religiose. Qualcuno ne parla come di un personaggio complesso, altri lo considerano scontroso, arrogante nella sua superiorità intellettuale. In una serata in casa Macchi si fa un gioco di indovinelli. Stefano ne propone uno tanto astruso, che il padre di Lidia rinuncia a uscire e si lascia coinvolgere. La laurea in filosofia è brillantissima. Ma la vita di Stefano Binda è già in caduta. A diciassette anni il primo incontro con l’eroina. Frequenta tossicodipendenti, è molto legato a uno di questi che finirà stroncato da una dose letale. Dal 1993 al ’95 è accolto in una comunità. Fra il 2008 e il 2009 una ricaduta. C’è anche un decreto penale di condanna per guida sotto l’effetto di stupefacenti. Poco prima del Natale dell’86, il suo ultimo Natale, Lidia Macchi acquista molti volumi sulle tossicodipendenze, vuole documentarsi, spiega al commesso della libreria. I vicini della villetta bifamiliare di Brebbia, dove Binda vive con la madre e la sorella parlano oggi di un uomo schivo, abitudinario, il caffè del mattino in un bar, la birra in un altro nel pomeriggio, tante letture. Nessun lavoro, l’impegno nel volontariato e in parrocchia. Un appuntamento fisso: la messa della domenica. Ma don Fabio Baroncini, all’epoca responsabile della gioventù varesina di Cl, oggi parroco a Niguarda: «sono convinto che non sia ancora emersa tutta la verità».