Se il pixel si fa arte. E si fonde con la musica: la mostra all'Unicredit Pavilion

Tsunami sensoriale dal 26 luglio a fine agosto all'Unicredit Pavilion di piazza Gae Aulenti

L'installazione di 'arabeschi digitali' di Miguel Chevalier

L'installazione di 'arabeschi digitali' di Miguel Chevalier

Milano, 26 luglio 2016 - "Il Pixel è la base del mondo digitale. Ed è un’opera d’arte che sa emozionare". A Miguel Chevalier, artista francese, piacciono molto le avanguardie. Forse perché lui stesso è un pioniere, e per l’esattezza dell’arte virtuale "nell’era dell’informazione". Un po' come i futuristi un secolo fa osannavano le macchine e gli esponenti della Pop Art, qualche decennio dopo, celebravano il folklore urbano.

La sua mostra 'Lo Sguardo di… Miguel Chevalier – Onde Pixel' (da oggi al 28 agosto al Pavilion Unicredit di Milano) è uno straordinario spettacolo interattivo che parte da un’installazione ispirata ad alcune opere contemporaneee selezionate dalla collezione Unicredit (che costituisce la prima parte dell’esposizione ospitando artisti del calibro di Schifano, Vasarely, Castellani e tanti altri), i cui motivi sono poi ripresi attraverso una serie di proiezioni pavimentali e caleidoscopiche. E fluttuano creando un immenso tappeto di arabeschi digitali simili a onde.

Ne vien fuori un modo rivoluzionario di concepire lo spazio, che fa dello spettatore non solo un fruitore delle opere, ma anche un soggetto capace di “abitarle”, diventandone parte integrante, fino ad esserne travolto grazie a una fusione sapiente di forme, luci e colori cadenzati da alcune melodie realizzate da Jacopo Baboni Schilingi, esponente della musica 'erudita' che frequenta molto spesso lo studio parigino di Chevalier.

"In questa grande installazione digitale ho voluto esplorare alcuni dei temi ricorrenti nei miei lavori - spiega Chevalier - come la relazione tra natura e artificio, l’osservazione dei flussi e delle reti che organizzano la società contemporanea, l’architettura immaginaria e le città virtuali mettendo in discussione il nostro rapporto con il mondo e l’arte del XXI secolo".

E in effetti, come già sosteneva il critico americano Jack Burnham negli anni Sessanta, l’arte non risiede più in entità materiali, ma nelle relazioni tra le persone e tra le persone e il loro ambiente. "Il bello che si nasconde in ogni motivo digitale ha senso solo in base al movimento dello spettatore - sottolinea Schilingi - che si trasforma in una 'realtà estesa' dell’opera d’arte".