"Io, carabiniere infiltrato tra narcos e confidenti"

Il maresciallo Antonio Caretti racconta per la prima volta la sua esperienza nei reparti d’élite Antidroga

I componenti della squadra antidroga subito dopo un sequestro: Caretti è il primo da destra

I componenti della squadra antidroga subito dopo un sequestro: Caretti è il primo da destra

Milano, 2 giugno 2017 - «Ciao Sam, tutto bene?». Lo chiamano tutti così quando lo incrociano in via Moscova o chissà dove. Qualche mese fa, il maresciallo Antonio Caretti è andato a comandare la stazione di Senago, in Brianza. Gli abiti da civile li ha riposti in un armadio, ora indossa con orgoglio l’uniforme d’ordinanza e si occupa di quelle piccole grandi incombenze da caserma di periferia. Eppure per i colleghi, specie i più giovani, quell’uomo con i capelli impomatati, gli occhi vispi e la battuta sempre pronta resta soltanto Sam. Uno da ammirare. Uno del Road, il Reparto operativo antidroga. Militari d’élite che negli anni Novanta si infiltrivano nelle organizzazioni criminali specializzate in traffico di stupefacenti dal Sudamerica. Lui è stato un undercover: servizi sotto copertura, contatti con i narcos colombiani o loro emissari in Italia agevolati dal confidente di turno, operazioni delicate e ad alto rischio. «Questo ero io...», indica nella foto ingiallita che lo ritrae col resto della squadra davanti a un carico appena sequestrato. Istantanee da film catalogate con certosina precisione nell’album dei ricordi custodito da un altro ex Road, il maresciallo Giancarlo Rapone oggi comandante a Muggiò. Per la prima volta, Sam ha deciso di raccontare quegli anni avventurosi. In bilico su un filo. Senza possibilità di errore. Con l’adrenalina a mille.

Maresciallo Caretti, partiamo dal soprannome: perché ha deciso di chiamarsi Sam?

«Quando sono arrivato nel ’94 a Milano, per tutti ero il Principe. Al Road, però, c’era già un altro che aveva un cognome molto simile. Così, essendo il più giovane, ho dovuto cambiare. E ho scelto Sam perché alle mie spalle, in ufficio, c’era una foto dello zio Sam, sa quello americano col cappello a stelle e strisce che ti chiama per arruolarti?».

A proposito di arruolamento, com’è arrivato al Road?

«Nel ’94, quando ero a Eboli, mia prima destinazione, viene fuori un’interpellanza per il Comando carabinieri antidroga. Decido di partecipare. Test psicoattitudinali ok, vengo ammesso al corso. Passo gli esami e mi chiedono di scegliere tre sedi possibili: la prima opzione è Milano, ed eccomi qui. Trovo una realtà completamente diversa, mi ritrovo a lavorare con gente che aveva fondato i vecchi reparti antidroga. Reparti scorporati dall’Arma territoriale: Milano, Roma e Napoli le sezioni principali, Genova, Torino e Verona le sottosezioni».

Ai tempi, com’era il mercato della droga in città?

«Tutto controllato da italiani: non scappava un grammo, tutto era sorvegliato quartiere per quartiere. L’eroina arrivava dalla Turchia via Germania a 70 milioni di lire al chilo. Poi sono arrivati gli albanesi: i prezzi si sono abbassati, e di pari passo la purezza. Con i grandi blitz, la gestione del narcotraffico si è parcellizzata: oggi chiunque può improvvisarsi imprenditore del crimine, basta avere i soldi e il canale per l’importazione».

Come vi muovevate al Road?

«La chiave era il confidente, che all’epoca veniva retribuito, ovviamente dopo l’autorizzazione della Direzione centrale servizi antidroga. Qualcuno lo faceva per vendetta, altri per eliminare un rivale. Noi non facevamo troppe domande, l’importante era che la segnalazione fosse veritiera. E poi gli facevamo capire che non poteva sgarrare. Lui ci serviva per stabilire il contatto, poi si defilava, anche per tutelare la sua incolumità».

Ci racconti un tipo di intervento?

«Modalità classica: il confidente faceva sapere a uno che voleva acquistare cocaina dalla Colombia che conosceva una persona in grado di far “uscire” il carico dall’aeroporto, riuscendo a eludere i controlli. Quella persona ero io: l’undercover. Quando il corriere arrivava a Milano, io, con decreto dell’autorità giudiziaria e d’intesa con i funzionari dell’Agenzia delle Dogane, prelevavo la “roba” e poi lo arrestavo».

Che caratteristiche doveva avere un buon carabiniere sotto copertura?

«Non dovevi crearti un’altra identità completamente diversa da quella reale. Poche domande per non generarne altre. Mai dire di essere stato in carcere, altrimenti ti avrebbero posto il classico interrogativo: “Chi era lo spesino (quello che gira per le celle chiedendo ai detenuti se vogliono comprare qualcosa, ndr)?”. E poi dovevi essere un buon affabulatore e una persona tranquilla: io sono sempre andato agli incontri senza pistola né microfoni. Come quella volta in una villetta dell’hinterland Nord...».

Cosa accadde?

«2006, ultima operazione da undercover quando ero alla Terza sezione del Nucleo investigativo. Lì ci ero arrivato dopo la chiusura del Road nel ’96 e un breve passaggio al Nas. Uno che era finito in carcere decide di “venderci” il socio: “Guardate che quello ha ancora quattro chili...”. Ci presentiamo alla sua porta in due: “Mi manda Carlo, ci sono quattro cambiali mie qui...”. Lui si fida e tira fuori la droga, nascosta dietro la ruota posteriore destra di una macchina: c’era uno sportellino largo come un panetto di cocaina. Noi la prendiamo e chiediamo se possiamo comprarne altra. Il tizio ci richiama il giorno dopo: con lui c’è anche un altro, la trattativa si chiude per un altro chilo. Bilancino e coltellino per incidere la piastrella di droga: bisognava dare l’impressione di essere esperti, cose che si imparano sul campo e non ai corsi. Comunque, il giorno dopo organizziamo il servizio: al momento dello scambio di soldi, avverrà la cattura».

E successe così?

«No, perché c’era sempre l’imprevisto, come in tutte le cose della vita: dovevi essere bravo a gestirlo senza andare nel panico. Quando stiamo per uscire per andare a prendere i soldi, il tizio ci dice: “Uno solo, l’altro resta qui”. Rimango io, il collega va. Io chiamo il caposervizio e gli dico: “Esce solo Lorenzo...”. Sono attimi: devi sperare che l’altro, fuori di copertura, capisca al volo quello che sta succedendo e agisca per il meglio».

Funzionò?

«Sì, per fortuna: irruzione al piano terra, manette e sequestro».

Poi la figura dell’undercover è sparita: perché?

«Le tecniche di investigazione sono cambiate, con la crescita di intercettazioni telefoniche e ambientali. La figura dell’infiltrato ha perso fatalmente interesse».

Quanta droga si è visto passare sotto gli occhi?

«Tonnellate, direi. Cocaina. Eroina. Droghe sintetiche: 22mila pastiglie di ecstasy prodotte a Berna. E poi tanto hashish: io sono stato l’unico a fare acquisti simulati all’interno di un noto centro sociale, 14 milioni di lire per una partita poi sequestrata».

La droga a Milano continua a scorrere a fiumi, nonostante le operazioni in serie delle forze dell’ordine: si è mai chiesto se ha lavorato per nulla?

«No, mai. Io sono un carabiniere e faccio il mio dovere: arrestare i delinquenti».

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