Milano, il ferroviere massacrato col machete: "Gli italiani si fermano, loro no"

"I nostri giovani si fanno forti del gruppo, gli altri non temono nulla"

Carlo Di Napoli (Newpress)

Carlo Di Napoli (Newpress)

Milano, 9 settembre 2017 - "La mia bambina guarda le cicatrici sul mio braccio e mi chiede: ‘Papà, bua? Chi ha fatto bua a papà’. ‘Amore, sono stati dei bambini cattivi’, le rispondo. Allora corre a prendere la sua valigetta della dottoressa. Per fortuna non può vedere le altre cicatrici, quelle che mi porto dentro". Carlo Di Napoli, la vita riconquistata, la lotta vittoriosa per non perdere il braccio sinistro, quasi tranciato con un machete nella bestiale aggressione da parte di un gruppo di giovani sudamericani. Era la sera dell’11 giugno di due anni fa, su un convoglio di Trenord che si era avviato dalla stazione di Rho, destinazione Milano Rogoredo. Il capotreno Di Napoli aveva chiesto il biglietto, i latinos ne erano sprovvisti. Carlo Di Napoli, la violenza viaggia in treno. «È una tematica sociale. L’unica cosa che mi auguro e che potrebbe limitare il male è rendere certe le pene, dare alle forze dell’ordine più potere e leggi a favore, non contro. È amaro vedere che hanno le mani legate. L’opinione pubblica è schierata contro. La domanda è quella solita: cosa fa la polizia? Fino a quando non si è colpiti di persona. Prima sono tutti pronti a criticare, a tirare fuori il cellulare per girare dei video, magari con le immagini di un agente in difficoltà. Il web ne è pieno. Sono sempre stato dalla parte delle forze dell’ordine, non solo perché ho tanti amici, ma soprattutto perché credo in loro». Che atteggiamento hanno i viaggiatori? «I colleghi si sfogano con me. Fa male vedere l’indifferenza dei passeggeri. Oppure quelli che guardano e sorridono». Lei ha 34 anni. E’ capotreno da undici. Aveva visto montare la violenza anche prima della sua terribile esperienza?  «Difficile dirlo. La clientela è cambiata. Prima che arrivasse la mia generazione, il problema erano gli scippatori. E’ venuta l’immigrazione dall’Albania, poi quella dal Nord Africa. In generale, c’è una strafottenza alimentata da un senso di impunità. Da giovane, la mia divisa incuteva un certo rispetto. La frase ‘Occhio, che chiamo la polizia’ funzionava. Adesso non più. Ti ridono dietro».  Vede allora un collegamento fra immigrazione e violenza?  «Il problema è più ampio, non riguarda solo l’immigrazione ma anche gli italiani. Per esempio i ragazzetti, che presi singolarmente non sono pericolosi ma in gruppo si fanno forti del numero. E allora ci sono gli insulti, le distruzioni dei materiali e anche le aggressioni. La differenza è che l’italiano sa che ha tutto da perdere da un intervento delle forze dell’ordine e di solito si ferma. Lo straniero no e te lo dice: ‘Non mi possono fare niente’». Chi è oggi Carlo Di Napoli?  «Il 19 settembre mia figlia andrà alla scuola materna e io sarò in ospedale per il quarto intervento. Mi sono associato all’Unavi, Unione Nazionale Vittime, che raccoglie chi ha subito reati violenti e i familiari delle vittime. Sappiamo cos’è l’abbandono da parte dello Stato. Anche nel mio settore ho sentito tante promesse non mantenute. Lavoro nella formazione dei giovani capitreno. Cerco di trasmettere che si deve credere sempre nello spirito di appartenenza e mettere nel lavoro scrupolo e passione».  Il futuro?  «Rifiuto di sentirmi sfiduciato, nonostante le brutte notizie della cronaca che mi fanno scendere, ogni giorno, un gradino di sconforto. Anche nei momenti di tristezza, penso che qualcosa prima o poi dovrà cambiare. Spero prima che poi».

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