L'avvocato del pugile-terrorista: «Sarà dura tirarli fuori»

L’avvocato Pesce e gli aspiranti foreign-fighters detenuti nel carcere di San Vittore

Abderrahim Moutaharrik, 28 anni

Abderrahim Moutaharrik, 28 anni

Lecco, 4 maggio 2016 - Sono giovani e quasi coetanei. Da una parte l’avvocato Francesco Pesce, ventinove anni e la voglia di farsi strada in una professione dove la concorrenza si è fatta sempre più agguerrita. Dall’altra Abderrahim Moutharrik, di un anno più giovane, primo aspirante foreign-fighter arrestato sul suolo italiano. Rahim, il kick-boxer semiprofessionista che voleva arruolarsi sotto le bandiere dello Stato islamico che il quasi coetaneo è chiamato a difendere insieme alla moglie, Salma Bencharki, arrestata pure lei con l’accusa di essere sul punto di partire verso la Siria e unirsi alle truppe del Califfato. Entrambi ora si trovano in cella nel carcere di San Vittore.

Avvocato Pesce, innanzitutto come si sente ad avere un caso del genere tra le mani?  «Quando un avvocato giovane come me si iscrive alle liste dei difenbori d’ufficio lo fa per farsi clienti ed esperienza. Di solito uno si immagina i delinquentelli di basso cabotaggio e invece in questo caso si trova tra le mani i primi arrestati sul suolo italiano con l’accusa di essere dei terroristi. Quello che posso dire è che darò il massimo sul piano professionale, fermo restando la massima stima per il lavoro della Digos». 

Come sono le condizioni psicologiche dei suoi assititi? «Sono ovviamente provati ma soprattutto preoccupati per i loro due figli rimasti con i nonni. Non vorrei essere nei panni di quest’ultimi che hanno dovuto spiegare loro che papà e mamma non tornano a casa perchè finiti in carcere perché qualcuno dice che volevano farsi saltare in aria in Vaticano. Senza contare che per loro stessa ammissione tutto quanto accaduto ha creato non pochi problemi a loro e alla comunità islamica perché Lecco e Valmadrera non sono New York».

Perché ha deciso di sottoporre i suoi asssititi all’interrogatorio e di non avvalersi invecedella facoltà di non rispondere come nel caso di Abderrahmane Khachia? «Parto dal presupposto che quelle frasi finite nelle intercettazioni sono state pronunciate, non si può far finta di nulla. Così ho detto ai miei assistiti di spiegare le loro ragioni, magari definendo il contesto».

La storia dell’aiuto alle popolazioni coinvolte nella guerra, no? «Certamente. Moutharrik sostiene che come ogni buon musulmano voleva dare una mano a quelle genti».

Questioni di interpretazioni. Resta un’accusa grave, gravissima perché a rischio c’è la sicurezza nazionale, non trova? «Certo, certo. Sono il primo ad essere convinto che sarà durissima tirarli fuori dal carcere in tempi brevi. I reati contestati sono pesanti, come le pene che vanno da cinque fino a un massimo di quindici anni. Molto dipenderà da quanto peso avrà l’aspetto emotivo in tutta la vicenda e a che livello metterà l’asticella il giudice».