Papà Englaro, la mia scelta? La spiega Sciascia: «A volte il morire è l’unica speranza»

L’intervista a 5 anni dalla scomparsa di Eluana. "Chi non farebbe di tutto per rispettare la volontà di una figlia. In Italia siamo indietro anni luce, qui l'eutanasia è equiparata all'omicidio volontario" di Agnese Pini

Beppino Englaro mostra la foto della figlia Eluana

Beppino Englaro mostra la foto della figlia Eluana

NELLA NOTTE di sabato scorso Brittany Maynard, affetta da cancro al cervello, ha deciso di morire in Oregon, uno dei quattro Stati Usa che riconoscono il diritto all’eutanasia. In Italia, il caso di Brittany ha riacceso i riflettori su una storia che ha segnato profondamente il dibattito etico recente nel nostro Paese, quella di Eluana Englaro, la ragazza di Lecco che il 18 gennaio 1992 rimase coinvolta in un incidente stradale, a 22 anni, che le causò prima il coma e poi uno stato vegetativo permanente. Da allora suo padre, Beppino Englaro, ha portato avanti una battaglia legale per vedere riconosciuto il diritto alla «autodeterminazione terapeutica», infine sancito con una sentenza della Cassazione il 16 ottobre 2007. A Eluana fu staccata la spina dalla macchina che la teneva in vita la sera del 9 febbraio 2009, in una clinica di Udine. Non si trattava dunque di eutanasia, che in Italia resta illegale: ma la storia di Eluana ha aperto un dibattito senza precedenti sul tema del fine vita nel nostro Paese.

Milano, 5 novembre 2014 - Quella di Beppino Englaro e della sua Eluana è una storia semplice. È lui stesso a dirlo, a dispetto di un «dolore allucinante» che negli anni, nei mesi, nei giorni – 5.750 giorni – è diventato «una devastazione umana» senza precedenti. «Eppure è semplice la nostra storia, perché Eluana e la sua famiglia, Eluana ed io, non volevamo niente di rivoluzionario, niente di eroico. Volevamo solo vedere riconosciuti i nostri diritti, già sanciti dalla Costituzione. Volevamo solo la nostra libertà, quella di autodeterminarci: nella malattia e anche nella morte». E non ci si accorge di non avere la libertà finché non si è costretti a chiederla. Autodeterminazione terapeutica si chiama in termine scientifico quella libertà che aveva chiesto Eluana in una lettera scritta come in una premonizione un anno prima dell’incidente che la ridusse in coma e poi in stato vegetativo permanente, nel gennaio del 1992. Libertà che poi aveva invocato senza arrendersi suo padre, combattendo per lei che non poteva più parlare.

«Come scriveva Sciascia: “Non è la speranza l’ultima a morire, ma a volte il morire è l’ultima speranza”», dice Englaro e ogni parola vibra ancora, a distanza di cinque anni dalla sera in cui a sua figlia fu staccata dal corpo la macchina che le faceva battere il cuore, la sera in cui in una clinica di Udine il sipario si chiuse sulla sua battaglia che senza volerlo era diventata la battaglia di un Paese diviso: «Chi non farebbe di tutto per rispettare le volontà di una figlia?». Poche ore fa, dall’altra parte del mondo – Oregon, Usa – una giovane donna di 29 anni, Brittany Maynard, ha preferito la morte dolce, «suicidio assistitto» nel lessico tecnico, all’agonia che le avrebbe inflitto il suo cancro al cervello senza cura. Solo cinque Stati Usa riconoscono l’eutanasia. Quattro in Europa – Svizzera, Belgio, Olanda, Germania – con differenze anche sostanziali nel sancire il diritto all’eutanasia passiva e non solo il suicidio assistito (in questo caso il paziente deve essere in grado di poter scegliere consapevolmente la morte dolce). «In Italia siamo indietro anni luce dal punto di vista normativo: qui l’eutanasia è equiparata all’omicidio volontario o all’omicidio del consenziente – spiega l’avvocato Franca Alessio, che ha seguito passo dopo passo Eluana e suo padre –. Da tempo è aperto un tavolo istituzionale sul tema, ma non approda mai a nessun passo concreto». Il caso di Brittany ha ora riacceso il dibattito anche nel nostro Paese in cui, malgrado le falle di legge, il 64% della popolazione si dichiara favorevole all’eutanasia, secondo un rapporto Eurispes del 2013.

«Ma non si può parlare di eutanasia quando si parla di Eluana. E non si può fare un paragone fra mia figlia e Brittany. Sono casi molto diversi, anche se ancora oggi si tende a confondere il diritto a interrompere una cura con la morte dolce». Englaro non vuole dare giudizi. La lunga sofferenza insegna la prudenza e il rispetto di ciò che non si conosce: «Io posso parlare solo per la mia coscienza e la mia storia». Ma se ancora il pessimismo per «una classe politica chiusa e impreparata ad affrontare certi temi» non lo ha abbandonato, con orgoglio oggi il papà di Eluana può affermare «che molto è cambiato negli ultimi vent’anni, anche in Italia». Non ne fa una questioni di leggi, ma di coscienza civile. «Quando tutto iniziò, ricordo cosa mi rispose la prima volta il primario dell’ospedale di Lecco, dopo che gli dissi che non volevo condannare mia figlia a una vita che non era vita: “Non posso fare altrimenti, come medico e come uomo“. Nessuno poteva fare altrimenti, allora. Ma oggi è molto diverso: oggi le persone sanno che possono scegliere. Sono libere perché sono informate. Scriveva Pulitzer quasi un secolo fa che un’opinione pubblica bene informata è una Corte Suprema».

Non poteva prevedere Englaro i risvolti profondi che avrebbe preso la sua «storia semplice». Ma è con la stessa semplicità che adesso lui guarda a questi 24 anni «strani, folli e strazianti. Io ho agito per amore. E conosco una sola forma d’amore: il rispetto». agnese.pini@ilgiorno.net