"Non ci sono prove, non è stato Stefano Binda"

Omicidio Macchi: la Cassazione conferma l’assoluzione decisa dalla Corte d’Appello. La parte civile: "Ci sarebbe voluto un nuovo processo"

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di Gabriele Moroni

È una lunga giornata quella che inizia davanti agli “ermellini“ della prima sezione penale della Cassazione con la requisitoria del sostituto procuratore generale Marco Dall’Olio. Per il pg della Suprema Corte Stefano Binda non è l’assassino di Lidia Macchi, l’uomo che la sera del 5 gennaio 1987, dopo la violenza, trucidò con ventinove coltellate la studentessa di Varese, sua compagna di liceo classico e come lui militante di Comunione e Liberazione. Chiede che vengano dichiarati inammissibili sia il ricorso della procura generale di Milano sia quello delle parti civili contro la sentenza d’appello che aveva assolto per non avere commesso il fatto il cinquantatreenne laureato in filosofia di Brebbia.

Era il 24 luglio del 2019 e il pronunciamento pienamente assolutorio della Corte d’Assise d’appello di Milano aveva ribaltato con cui, poco più di un anno prima, l’Assise di Varese aveva inflitto il carcere a vita a Binda, arrestato nel gennaio del 2016. Il pg è pacato e misurato, ma netto nelle affermazioni. Al di là delle polemiche e dei toni accesi, non esiste una prova che il rapporto fra Lidia e Stefano andasse oltre una semplice conoscenza. Non esiste una prova che in quella serata di gennaio Binda fosse lì, davanti all’ospedale di Cittiglio, dove Lidia viene vista viva per l’ultima volta, mentre è in visita a un’amica ricoverata dopo un incidente stradale. Rimandare il processo a Milano? Se anche ci fosse un nuovo processo d’appello, non potrebbe portare a un esito diverso dal momento che dal quadro probatorio non esce la prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza di Stefano Binda. Per i difensori Patrizia Esposito e Sergio Martelli è il rush finale. "Si è parlato molto - dice l’avvocato Esposito, che ha sul viso la mascherina con il nome di u sito sugli errori giudiziari - di rispetto. L’unico rispetto è quello del codice. La sentenza dell’appello ha riportato il processo nel canone delle regole". È una scalata con pochi e friabili appigli quella della parte civile, l’avvocato Augusto Cornalba, che ha curato il ricorso in Cassazione, e l’avvocato Daniele Pizzi, da sempre vicino alla madre e ai due fratelli di Lidia. "È necessario - sostiene Cornalba - un nuovo processo, non solo per la mamma della vittima, per il fratello che aveva pochi mesi e la sorella diventata maggiorenne in quei giorni, ma anche per lo stesso imputato. Binda merita un giudizio diverso, senza questi errori".

Nel ricorso in Cassazione del sostituto procuratore di Milano, Gemma Gualdi, si sosteneva la tesi che quello che aveva scagionato Binda fosse stato un "processo ingiusto, unidirezionalmente impostato e monocraticamente condotto". Una "sentenza che poco ha compreso, molto scritto e tutto devastato". I giudici dell’appello avevano "escluso una pluralità di elementi di prova, tutti necessari al quadro probatorio complessivo", come per la consulenza del clinico psichiatra Mario Mantero. E per compensare questa “aporia“ non era stata disposta una perizia sull’imputato, che il pg ha ripetutamente richiesto in appello.