Minacciava e pedinava la psicologa della causa di separazione: mamma condannata in via definitiva

Busto Arsizio, la donna accusava la professionista di formulare perizie false. Ogni giorno pubblicava sui social post dal carattere minatorio

La cassazione ha confermato la condanna

La cassazione ha confermato la condanna

Busto Arsizio (Varese) – Aveva preso di mira la psicologa che nella causa di separazione dal marito doveva fare perizie sulla idoneità genitoriale sua e del coniuge per decidere le modalità di affidamento della loro bimba e aveva tempestato i social, per lo più gruppi di madri scontente degli affidi, di post nei quali accusava la professionista di essere protetta dalla mafia e di formulare perizie false. Era anche arrivata a pedinarla, e a farle appostamenti, stessa sorte era toccata anche all’assistente sociale. Adesso la Cassazione ha confermato le accuse di stalking e diffamazione a carico di una mamma di Busto Arsizio, imputata e condannata in via definitiva a un anno e sei mesi di reclusione. Senza successo la difesa della donna, una signora di 48 anni, che ha protestato contro la condanna inflittale in primo grado e poi convalidata dalla Corte di Appello di Milano nel giugno 2022.

Davanti agli “ermellini" ha sostenuto che non era stato tenuto nella giusta considerazione il “fine sociale” che avrebbe animato la sua “battaglia civile”. Ad avviso della Cassazione, i giudici di merito hanno valutato correttamente “l’insieme dei comportamenti” addebitati, tra i quali “appostamenti e pubblicazione di post dal chiaro contenuto minatorio", pubblicati “con frequenza quasi giornaliera”, come idonei “a integrare la condotta materiale di molestia o minaccia”. Per la Cassazione, infatti, “anche le sole pubblicazioni di post su svariati social network sono sufficienti, da sole, a integrare il reato di atti persecutori”. Quanto ai post pubblicati, la Cassazione rileva che erano connotati da “virulenza e ossessiva ripetitività”, oltre che dal carattere “minatorio”. L’imputata aveva sostenuto (senza successo) di esercitare solo il proprio diritto “alla libera espressione del pensiero”.