Marini, il campione del mondo delle Fanfani

All’Inter per 20 anni. "È la mia casa". Quella volta in cui il ct Bearzot mi disse: resterai con noi in Nazionale per molto tempo

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Dai due campetti che da bambino calcava scorrazzando con gli amici al rione Fanfani di Lodi è arrivato a giocare negli stadi più prestigiosi ed è riuscito a sollevare la Coppa del mondo nello straordinario “Mundial” del 1982. Gianpiero Marini, 72 anni il prossimo 25 febbraio, il legame con Lodi, la sua città natale, non l’ha mai reciso. "Sono nato in una famiglia di lavoratori - racconta -. Mio papà faceva l’autista e mia mamma l’operaia in un’azienda della città e hanno fatto di tutto per non fare mancare mai niente a me e a mio fratello di quattro anni più giovane".

Famiglia di lavoratori e tanta voglia di giocare di pallone fin da piccolo...

"Sì e anche mio fratello ce l’aveva. Abitavamo al quartiere Fanfani che è stato costruito negli anni Cinquanta del secolo scorso. C’erano due campi da calcio: quello dell’oratorio e un altro nelle vicinanze. Passavamo lì dalla mattina alla sera quando non c’era la scuola, a fare partite infinite".

Poi le cose si sono fatte più serie...

"Quando avevo tra i 12 e i 13 anni sono andato a giocare nella Wasken Boys, che ai tempi era il club più prestigioso di Lodi. Dopo passai al Fanfulla, prima nelle giovanili e poi in Prima squadra. Quindi, quando avevo 16 anni arrivò il trasferimento al Varese. Io a Lodi studiavo da geometra al Bassi così dovetti lasciare e terminare gli studi a Varese dove mi diplomai".

La carriera di Gianpiero Marini è proseguita poi con le maglie della Reggina e della Triestina (nella stagione 1971-1972), con il ritorno al Varese (1972-1975). E nell’estate del 1975 l’approdo all’Inter dove conquistò lo scudetto nell’annata 1979-1980 con allenatore Eugenio Bersellini e due Coppa Italia (nelle annate 1977-1978 e 1981-1982). Il suo ruolo in campo, da regista offensivo, con il passare degli anni, era diventato quello di regista davanti alla difesa. Era dotato di eleganza e di grande intelligenza tattica.

"All’Inter, considerando gli anni da giocatore e quelli da allenatore (ha guidato la Primavera nerazzurra dal 1987 al 1991 e poi nella stagione 1993-1994 è subentrato ad Osvaldo Bagnoli sulla panchina della prima squadra conducendola alla vittoria della Coppa Uefa,

ndr) sono rimasto venti anni. L’Inter è la mia casa".

Qui all’Inter incontrò anche Riccardo Ferri, il quale pochi mesi fa raccontò proprio sulle pagine di questo inserto che quando non aveva ancora la patente per raggiungere Appiano Gentile da Crema doveva prendere quattro mezzi pubblici e non aveva il coraggio di chiedere un passaggio a lei perchè era in soggezione di fronte a un calciatore già grande e affermato...

"Confermo. Dalla Primavera si aggregavano alla nostra squadra per gli allenamenti lui e Beppe Bergomi, erano i due più bravi. Un giorno li avvicinai e gli chiesi da dove arrivavano. Bergomi mi disse da Settala (Milano) e Riccardo mi disse Crema. “Ci metto tre ore ad arrivare”. “Allora vieni su come me” gli dissi. E così da quel giorno suo papà lo accompagnava a casa mia al mattino e poi andavamo insieme ad Appiano".

Vi sentite ancora adesso? Vi incontrate a Lodi visto che ora siete entrambi lodigiani?

"Sì certo. Riccardo è stato un campione ed è una gran bella persona".

Della Nazionale che ricordi ha (ha vestito la maglia azzurra dal 1980 al 1983, ndr)?

"Sono stati i momenti più belli. Erano gli anni in cui nel campionato italiano dominavano Juventus ed Inter. Io fui chiamato per la prima volta quando avevo già 29 anni, credo per le buone prestazioni che stavo facendo con il mio club. L’esordio fu a Roma l’1 novembre 1980 contro la Danimarca (vinse l’Italia 2-0, ndr). Poi fui convocato ancora dopo pochi giorni per la partita di Torino contro la Jugoslavia, erano entrambe gare per la qualificazione ai Mondiali del 1982. Un giorno di ritorno da un allenamento verso l’albergo Bearzot si sedette sul pullman di fianco a me e iniziò a parlare di calcio. Capii che ne aveva una grandissima conoscenza. Poi mi chiese: “Come ti trovi con noi?”. “Ma mister, che domanda: mi trovo bene”. “Mi fa piacere, tu rimarrai con noi per parecchio tempo”. E questa frase mi si stampò nella mente. Allora non c’erano stage od altre cose simili per conoscere i giocatori. Bearzot faceva valutazioni profonde e considerava un giocatore per come si comportava sia in campo che nel gruppo".

Era un calcio molto diverso da quello di oggi...

"L’aspetto tattico era importante, ma non predominante come oggi. Negli allenamenti si lavorava molto di più sulla tecnica e si lavorava sodo. Vi assicuro che con Bersellini si faticava tanto. E alla sera eravamo distrutti".

Oggi segue ancora il calcio? Più alla televisione o allo stadio?

"Lo seguo certamente. Prevalentemente alla televisione, ma qualche volta vado anche allo stadio".

Torna qualche volta alla Dossenina a vedere il Fanfulla e lo stadio dove ha mosso i primi passi?

"Sì, qualche volta capita. Magari un po’ in incognito, ma vado".

E della città di Lodi quali sono i luoghi che ama di più?

"Sicuramente la piazza della Vittoria, posti così belli ce ne sono pochi in Italia. Da lì si guarda il duomo e si rimane affascinati. Poi si passa dietro, in piazza Mercato, e si pensa che il panorama da lì è ancora più bello. Poi direi il fiume Adda, un privilegio per la nostra città anche se non è più vissuto come una volta, e il mio quartiere Fanfani, dove la domenica incontro sempre i miei storici amici".