Io, direttore di hotel per Guè Tutto è cominciato con un selfie

Jerry Calà e il retroscena del suo ruolo nel video del cantante milanese per l’album Madreperla: "Ci siamo conosciuti in aeroporto, mi ha chiesto una foto. E pensare che sono un suo grande fan"

Nell’immaginario rap di Gué, Madreperla è un grand hotel milanese con vista sulla Galleria e Jerry Calà il suo direttore. O, almeno, quelli sono i panni vestiti dall’attore catanese trapiantato al Nord nel trailer diffuso in rete per annunciare l’uscita del disco.

Jerry com’è nato l’incontro con Guè?

"Ci siamo conosciuti anni fa quando mi ha chiesto di fare una foto assieme in aeroporto dicendo che era un mio fan. Gli ho risposto: “Guarda che sono io un tuo fan“. Così, quando mi ha chiesto di impersonare in video il direttore dell’Hotel Madreperla, che lui magnifica, ma in realtà è pieno di magagne, ho accettato volentieri. Ed è stato divertente guidare la telecamera nelle varie sale dell’hotel incrociando uno dopo l’altro pure gli altri protagonisti dell’album".

Per lei il rap non è una scoperta.

"Otto anni fa J-Ax mi ha fatto fare il rapper nella sua trasmissione tv e, col tempo, ho scoperto che tanti ragazzi del giro mi amano e hanno visto tutti i miei film. Questo mi fa un gran piacere perché vuol dire che, nonostante l’età, sono transgenerazionale".

Quando è approdato a Milano dalla Sicilia aveva due anni.

"Forse tre o quattro. E abitavo con i miei in Via dei Transiti in zona Pasteur, dove sono rimasto fino all’età di 11-12 anni, quando mi sono trasferito a Verona. Lì a due passi c’è l’oratorio della Chiesa di San Gabriele Arcangelo in Mater Dei, che da bambino frequentavo moltissimo".

È a Milano che ha preso il nome di Jerry.

"Sì, erano gli anni in cui imperversava Jerry Lewis. A casa tutti mi chiamavano Geri, diminutivo siciliano di Calogero, mio nome anagrafico, ma la mia passione per le imitazioni spinse i compagni di scuola a chiamarmi come il comico americano".

C’è qualcuno che la chiama ancora Calogero?

"Qualche amico di vecchia data, per scherzare, sì. Ma oggi mi piace essere Calogero, mentre da bambino mi piaceva un po’ meno. E poi la Milano negli anni Cinquanta non era tenerissima con chi veniva dal Sud. Anche se poi, col tempo, è diventata la città più ospitale e internazionale d’Italia".

Nel ’71 fu Cino Tortorella a lanciarla al Derby.

"Sì, stavo già nei Gatti di Vicolo Miracoli assieme ad Umberto Smaila, Franco Oppini e Ninì Salerno quando Tortorella ci vide in un ristorante romano dove, per mangiare, improvvisavamo i nostri spettacolini. Fu lui a proporci di seguirlo a Milano per debuttare al Derby, che al tempo stava in viale Monterosa 84. Fu un’esperienza da brividi se è vero che nel cartellone di quella nostra prima sera c’erano Cochi e Renato, Enzo Jannacci e Paolo Villaggio. Dovevamo esibirci dieci minuti e invece rimanemmo mezz’ora: un successo. Fu così che il locale diventò la nostra accademia".

Formidabili quegli anni.

"Per un disegno del destino abitavo assieme con gli altri ‘Gatti’ in una grande appartamento situato in una traversa di Via Venini proprio a poche centinaia di metri dal piazzale in cui ero cresciuto. Ho passato anni bellissimi in città, tant’è che ci torno spesso e ci ho comprato una piccola casa che utilizzo quando vengo per stare con gli amici e per respirare quell’aria internazionale che trovo solo qui. Ora l’appartamento, però, lo utilizza mio figlio che studia in città alla Civica Scuola di Cinema ‘Luchino Visconti’".

A proposito di cinema, la sua caricatura più divertente del milanese è stata quella di Giacomo in “Yuppies”?

"Quella dell’arrampicatore in cerca di successo che ha come mito Gianni Agnelli è stata una caratterizzazione riuscita grazie anche a quell’inflessione che, nonostante il trasferimento a Verona, non ho mai perso. L’accento milanese, infatti, ti marchia a vita e io ne vado fiero. Anzi, mi dispiace che ora, soprattutto fra i ragazzi, si sente un po’ meno. Peccato, perché il milanese è una vera e propria lingua e ricordo ancora quando Nanni Svampa ci tradusse le canzoni di Jaques Brel".

Insomma, una “lingua” da praticare di più.

"Assolutamente. Fra i pochi esami universitari di lettere antiche che ho sostenuto nella mia vita, prima di mollare tutto per fare questo mestiere, ce n’è uno in dialettologia italiana che affrontai portando proprio… uno studio sul dialetto di Milano".

Andrea Spinelli