Il serial killer di Monza

In città fu scoperta la prima vittima, altri tre delitti anni dopo

Una lapide commemora a Monza Carla Zacchi, prima vittima del serial killer

Una lapide commemora a Monza Carla Zacchi, prima vittima del serial killer

Monza, 25 giugno 2017 - Quando Carla Zacchi scomparve di casa, una sera di 34 anni fa, nessuno immaginò che potesse essere finita nelle grinfie di un serial killer.  Anzi, paradossalmente, neppure quando il colpevole fu arrestato e condannato, nessuno lo avrebbe mai anche lontanamente immaginato ma il caso fu metabolizzato come un episodio isolato, un atto di follia opera di un maniaco. Eppure, lo diranno le cronache, a decenni di distanza, dalle parti di Monza ha mosso i suoi primi passi quello che si sarebbe rivelato come un serial killer a tutti gli effetti.

Raccontiamo questa storia dolorosa come omaggio alla sua prima vittima, una povera ragazza la cui fotografia campeggia tutt’ora in città su una lapide commemorativa lungo il canale Villoresi, fra via Cavallotti e via Sempione.  E alle altre tre sfortunate donne che tanti anni dopo caddero vittima di un uomo malato, spietato e molto, molto pericoloso.

Uncadavere nel Villoresi

Tutto comincia una domenica mattina di 34 anni fa. 11 febbraio 1983. Canale Villoresi. Una lapide ricorda il punto preciso ancora oggi, lungo la pista ciclabile a mezza strada fra via Cavallotti e via Sempione. All’altezza di via Tofane diranno i rapporti dei carabinieri, alle spalle dello stabilimento Pagnoni. Dalle acque spunta un cadavere. Ad accorgersene per primo è G.B., che abita in una palazzina proprio nei pressi del canale. E avverte subito i pompieri.

Il cadavere viene tirato a riva e si scopre che si tratta di una donna, giovanissima: è nuda, solo un maglione rosso è avvolto attorno al suo collo. Chi sia lo svela la sua fede nuziale: l’anello reca incisa la data delle nozze e un nome, quello del marito. Di lì per i carabinierI non è difficile risalire all’identità del cadavere: è Carla Zacchi. Ha 26 anni, è impiegata in un giornale di moda di Milano ed è sposata da appena sette mesi. Il corpo non presenta segni particolari di violenza, solo il labbro superiore è spaccato e sulla guancia c’è un ematoma. Cominciano a riannodarsi abbastanza speditamente le ultime tappe della sua vita. La donna è sposata con un coetaneo, Raffaele Colaianni, pure lui impiegato, in una finanziaria. Hanno messo su casa a Lucino di Rodano, un piccolo centro fra Segrate e Pioltello, nell’hinterland milanese. Sono solo in affitto, a Carla quella casa di risulta non piace tanto, non si sente sicura. Attendono in realtà che si liberi la loro nuova dimora a Cologno Monzese. Il venerdì sera il marito esce a cena con amici, nulla di strano. Senonché al suo ritorno, della moglie – contrariamente a quanto si sarebbe mai potuto aspettare – non trova più alcuna traccia. Sabato mattina sporge dunque denuncia ai carabinieri e cominciano le ricerche, ma l’ipotesi di una fuga volontaria o peggio di un suicidio viene scartata rapidamente: non ci sono ombre nella vita di Carla Zacchi, il matrimonio, ancora così fresco, sembra andare a gonfie vele. Certo, le fosche tinte del “giallo” si addensano presto sulla scomparsa della giovane, soprattutto dopo che qualche ora più tardi, ormai in serata, un passante ritrova la sua borsetta abbandonata lungo il naviglio Martesana, nella zona della stazione Centrale di Milano. Nella borsetta vengono ritrovati i documenti della giovane, ma non i soldi. Poi, il mattino successivo, il tragico ritrovamento.  In attesa dell’autopsia subito ordinata dal magistrato di turno, comincia a farsi strada fra gli inquirenti e sulla stampa l’ipotesi che la donna possa essere stata vittima di un maniaco E una conferma arriva proprio dall’autopsia, come era immaginabile: si scopre che Carla Zacchi è stata colpita alla testa, strangolata e gettata nel canale. Poi, la corrente ne ha trascinato il cadavere fino al luogo del ritrovamento, dove un piede le si è incastrato sul fondale fino a quando il corpo è venuto a galla.

La trappola, il rifiuto e la morte

Il marito, Raffaele Colaianni, indica una pista agli inquirenti già nelle ore successive al tragico ritrovamento: «Forse è stata attirata fuori casa da qualcuno che ci conosceva e che poi l’ha uccisa. In questa storia ci sono tanti, troppi fatti strani che io ancora non riesco a mettere insieme». La sera della scomparsa la donna esce a precipizio dalla sua abitazione, qualcuno evidentemente l’ha attirata fuori con un pretesto, tanto che dimentica addirittura di riporre la cornetta del citofono e lascia la cena a metà. Non torna nulla con il quadro di una donna scrupolosa e metodica, che aveva timore a uscire di casa da sola e che invece quella sera l’abbandona con tanta fretta. A meno che qualcuno – come sospetta il marito – sia riuscito a ingannarla. Quel “qualcuno” viene individuato abbastanza rapidamente. A indicarlo per primo è lo stesso Colaianni. Si tratta di Antonio Mantovani, ha pure lui 26 anni, vive a Sesto San Giovanni e di mestiere fa il magazziniere in una ditta di trasporti di Milano.

La sera dell’omicidio di Carla Zacchi avrebbe dovuto prendere parte a un’allegra serata in compagnia di un gruppo di amici di cui faceva parte anche il marito della vittima. Al tavolo dove era atteso, però, lui non si presenta. Ad accrescere i sospetti dei carabinieri c’è poi un particolare: alcuni graffi al volto e alle mani. Li notano tre testimoni, in una pizzeria di Sesto San Giovanni dove Mantovano si presenta quella stessa sera a mangiare da solo con l’aria particolarmente imbronciata. E il fatto che il mattino successivo porti in tintoria un giubbotto sporco di terra e di sangue non fa che confermare i sospetti. Lui prova a negare, interrogato a lungo in caserma già alla domenica sera racconta di essersi ferito alle mani facendo semplicemente il proprio lavoro. Ma non è così. Come peraltro smentiscono per primi i suoi stessi colleghi. Si scopre intanto che nel passato di Mantovani, nel frattempo sottoposto a fermo (convalidato il 16 febbraio) come indiziato di delitto, ci sono alcuni precedenti inquietanti: e non sono quelli per furto e ricettazione che pure ha, ma spunta una vecchia denuncia per atti di libidine su minore presa nel 1971.

L'assassino e il processo

L’assassino alla fine risulta proprio lui. E nel corso dell’inchiesta si scoprono altri dettagli: Mantovani aveva strangolato la moglie dell’amico, che sapeva essere fuori casa per una cena a cui anche lui avrebbe dovuto partecipare, per essersi rifiutata di accettare le sue profferte erotico-amorose.  Dopo aver cercato di farle violenza, dinanzi alla sua decisa resistenza aveva cominciato a percuotere con foga la donna sino a farla svenire. Quindi, l’aveva strangolata e gettata nel Villoresi, da cui era emersa due giorni più tardi. Il 5 dicembre 1985 si arriva alla sentenza. Antonio Mantovani, che ha continuato a proclamare la propria innocenza anche al processo, viene condannato a 29 anni e due mesi di reclusione. Poco meno dei 30 anni chiesti dalla pubblica accusa.

Anatomia di un serial killer: il mostro di Milano

Nato a Trevenzuolo (Verona) nel 1957, Antonio Mantovani detto “il Morin” non chiude la sua esperienza criminale con il delitto di Carla Zacchi. Tornerà a uccidere molti anni dopo.  Infanzia difficile, la sua: abbandonato a 7 anni dalla madre, a soli 14 aveva tentato di violentare una bambina di 3 e nel 1979 aveva cercato di violentare la moglie di un amico. Poi, uccide Carla Zacchi e finisce in galera.  Nel 1996, dopo aver scontato 13 anni, ottiene la semilibertà. E torna a uccidere.

Tre, forse quattro i delitti che verranno attribuiti a quello che i giornali chiameranno il “mostro di Milano”. Durante il giorno Mantovani lavora in un’azienda informatica o trascorre il tempo in un appartamentino preso in affitto a Milano, mentre in carcere torna solo la notte. La prima vittima nella seconda esistenza di Antonio Mantovani si registra il 6 novembre 1996: si chiama Dora Vendola, anche lei in semilibertà, e viene trovata strangolata a 38 anni con la cintola del suo impermeabile nella sua macchina a Milano. Mantovani viene sospettato, ammette di conoscere la donna e di averci provato con lei, ma non l’ha uccisa, dice: gli credono e la semilibertà non gli viene revocata.

Nel 1997, approfittando dei permessi che gli vengono concessi, uccide due volte. La prima vittima si chiama Simona Carnevale: è una parrucchiera di 26 anni e scompare la sera del 7 marzo, dopo essere uscita dal suo negozio. Non la si troverà mai. Il 2 giugno viene invece trovato il cadavere carbonizzato di Carolina De Donato: ha 60 anni ed è la proprietaria dell’appartamento preso in affitto da Mantovani. La donna viene trovata nel suo letto, due sacchetti di cellophane in testa, circondata da una ventina di bambole e di profumi: una macabra messinscena che vorrebbe far pensare a un suicidio. Intanto si continua a cercare senza risultato la povera Simonetta, fino a quando viene spiccato un ordine di custodia cautelare per Antonio Mantovani. Ad accusarlo è un suo compagno di cella che, vista in Tv una foto della giovane scomparsa, ricorda di averla vista in compagnia proprio di Mantovani. E aggiunge che la sera della sua scomparsa, Mantovani era rientrato dalla semilibertà particolarmente agitato e gli aveva confessato di aver ucciso una ragazza chiedendo aiuto per seppellirla.  Mantovani viene intanto ritenuto responsabile pure dell’omicidio della sua padrona di casa, Cesarina De Donato, strangolata prima dell’incendio appiccato per inscenare il suo suicidio. E nonostante l’imputato continui a professarsi innocente (e tenti la fuga, ma verrà ripreso) il 12 novembre 2001 viene condannato all’ergastolo per l’omicidio di Simona Carnevale e a 29 anni per quello di Cesarina De Donato.

Mantovani, che non ha mai confessato, si è impiccato nel carcere di Saluzzo il 28 marzo 2003.