
di Stefania Totaro
Non una "congettura complottistica", come lui ha sostenuto al processo, le accuse nei suoi confronti, ma "una fondatezza emersa con lampante evidenza". Così la giudice del Tribunale di Monza Angela Colella spiega perché ha condannato a 3 anni e 10 mesi di reclusione e alla confisca di beni per 416mila euro il maresciallo in pensione dell’Arma Pasquale Santise e ha inflitto altre 3 condanne a 1 anno e il risarcimento dei danni con provvisionali di 5mila euro ciascuno per i soci della cooperativa edilizia costituiti parti civili, tra cui anche componenti dell’Arma. Al dibattimento il sottufficiale residente a Monza, che era luogotenente di polizia giudiziaria alla Procura di Milano, era coimputato a vario titolo per truffa, appropriazione indebita, falso ed evasione fiscale in qualità di legale rappresentante del Consorzio di società cooperative di edilizia convenzionata, tra cui la ‘Lucerna’ sorta a Lissone. Nelle motivazioni la giudice parla di "mala gestione della cooperativa" emersa dalle indagini partite "sulle violazioni edilizie per i sottotetti utilizzati come abitazioni" e il cui oggetto si è poi "allargato a macchia d’olio". Alla cooperativa, che "operava a fini di lucro, a dispetto del carattere mutualistico scolpito nello statuto". Con Santise che si era "unilateralmente attribuito un lauto compenso mensile senza che vi fosse stata una regolare delibera assembleare". Santise era il "gestore di fatto" con "la collaborazione della moglie" (per cui la giudice ha chiesto alla Procura di verificare se procedere con l’ipotesi di falsa testimonianza) e la nomina come amministratori di "prestanomi individuati tra amici e parenti". C’è poi la condanna per truffa aggravata inflitta a Santise, all’ex comandante della stazione dei carabinieri di Lissone V.M., all’architetto E.P. e al costruttore B.V., tutti ben noti nella cittadina brianzola, a cui è andata la pena di 1 anno con sospensione condizionale e non menzione della condanna. Sotto accusa una scrittura privata in cui Santise nel 2007 riconosceva agli altri tre 1,4 milioni di euro come titolari di diritti di prelazione sui terreni dove è sorta la cooperativa. Eppure "i tre non erano titolari di alcun diritto e non avevano svolto alcuna attività - sostiene la giudice -. Lungi dal costituire un errore commesso da persone sprovvedute, il riferimento alla prelazione era il tentativo di rivestire di una qualche legittimazione giuridica il riconoscimento di un debito che si fondava su patti occulti. Il tempo trascorso dai fatti e l’evidente resistenza opposta dagli imputati hanno impedito di ricostruirne il contenuto e in particolare di comprendere cosa i beneficiari si fossero impegnati a fare per meritare una simile ricompensa e così pure di capire se gli stessi coinvolgessero... altri soggetti non lambiti dalle indagini". Di fatto però la giudice ipotizza che "il loro impegno avesse attinenza con le relazioni intessute dai tre nei rispettivi ambiti professionali a Lissone e prevedesse in qualche modo interazioni con gli esponenti politici locali".
E "non è un caso che con il cambio di amministrazione comunale, il supporto all’iniziativa era venuto meno e si era addirittura aperto un contenzioso per la mancata realizzazione delle opere di urbanizzazione previste". Per la giudice "la conclusione è che, senza le ‘aderenze’ e i ‘buoni uffici’ dei tre condannati, Santise non avrebbe mai ottenuto un simile e incondizionato sostegno politico, che aveva consentito alla cooperativa di acquisire l’area ad un prezzo inferiore a quello di mercato, di sbaragliare la concorrenza e di ottenere rapidamente il via libera all’edificazione delle palazzine. Solo in quest’ottica si spiega il riconoscimento di un corrispettivo a dir poco esorbitante".