
Giuseppe Meazza
Lissone (Monza Brianza), 21 giugno 2020 - Si avvicinava palla al piede all’area avversaria, magari dopo essersi “bevuto” tutta la difesa. Poi, era come se arrestasse la sua corsa, guardava il portiere e lo invitava all’uscita. Come un torero che sta per “matare” il toro nell’arena. A quel punto, appena il portiere abboccava (e non poteva fare altrimenti), lo saltava con uno dei suoi dribbling secchi e depositava la palla in fondo al sacco.
Nel pieno del suo fulgore, come capita soltanto ai grandi, e lui lo era, la stampa e gli appassionati chiamarono quelle azioni “gol a invito”, o “gol alla Meazza”. Perché Giuseppe Meazza, Peppin come lo chiamavano all’epoca, è stato forse davvero uno dei più grandi. Tre titoli di capocannoniere, 286 gol in 409 partite. Tre scudetti (e una Coppa Italia) all’Inter, anzi l’Ambrosiana Inter come si chiamava a quei tempi. E due campionati del Mondo di calcio, con la maglia azzurra: nel 1934 in Italia e nel 1938 in Francia. Non sono in molti tuttavia a ricordare che Giuseppe Meazza, milanese doc, visse gli ultimi anni della sua vita proprio in Brianza. A Lissone, in una grande casa in via Timavo. Lo ricorda Federico Jaselli Meazza, il nipote, che pur trapiantato da anni a Madrid, non può certo dimenticare i dorati trascorsi del nonno, al quale ha dedicato anche un libro con il giornalista Marco Pedrazzini, “Il mio nome è Giuseppe Meazza”. "Lui era legatissimo a Milano ma la “lasciò” per andare a vivere a Lissone con la sua seconda moglie Carla (Lambrughi, ndr ). Carla era di Lissone o comunque della zona. La prima moglie Rita Galloni, mia nonna, era purtroppo mancata nel 1966 a soli 54 anni. Lui si risposò qualche anno più tardi".
In Brianza Meazza è morto, due giorni prima di compiere 69 anni, per un tumore al pancreas. "Mio nonno è mancato all’ospedale di Monza il 21 agosto del 1979 e non a Rapallo come erroneamente riportato da moltissimi giornali. A Lissone credo abbia vissuto gli ultimi 7 o 8 anni della sua vita". Nato il 23 agosto del 1910 a Milano, orfano di padre - morto durante la Grande Guerra - e cresciuto dalla mamma Ersilia, Meazza cominciò a tirare calci a un pallone di stracci nel quartiere popolare di Porta Vittoria. Finché qualcuno notò le sue straordinarie doti tecniche. Scartato a un provino dal Milan, fu scelto da un osservatore dell’Inter che dimostrò di avere occhio lungo, e a 14 anni lo portò nelle giovanili nerazzurre. A 17 anni, esordì in prima squadra. Un compagno più anziano, vedendo quel ragazzino mingherlino, lo apostrofò sarcasticamente: "Adesso facciamo giocare anche i Balilla?" termine con cui si indicavano - in epoca fascista - i bambini. E il Balilla fece subito gol. Tre, per la precisione. E quel soprannome gli rimase appiccicato. Centravanti o interno, alto solo 1 metro e 69 centimetri ma dotato di un tiro eccezionale e doti acrobatiche fuori dal comune, a nemmeno 20 anni fu convocato per la prima volta anche in Nazionale. A Roma, contro la Svizzera avanti di due gol, e con un ambiente che gli avrebbe preferito un centravanti più esperto, guidò una rimonta eccezionale. Due gol lui, altri due i compagni. Da 0-2 a 4-2.
L’Italia era già ai suoi piedi. Il trionfo arriva ai campionati del Mondo, agli ordini dell’allenatore Vittorio Pozzo, che di lui dirà anni più tardi: "Averlo in squadra significava partire già dall’1-0". A Roma l’Italia vince la sua prima Coppa Rimet. C’è il Regime però, e il vero trionfo arrivò quattro anni più tardi in Francia in un clima incandescente, con il pubblico francese ovviamente ostile e i fischi che arrivano al momento dell’Inno anche da parte degli Italiani antifascisti in esilio. Meazza però è un leader. Nei quarti di finale, contro il Brasile, viene fischiato un rigore. Meazza si accinge a batterlo, ma gli si rompe l’elastico dei calzoncini. Non si scompone. Con una mano si tiene i calzoncini, prende la rincorsa, tira e segna. L’immagine diventerà iconica. Alla fine, arriverà anche la seconda Coppa Rimet, il gol decisivo in finale lo segna Schiavio. Ma l’assist, ovviamente, è di Meazza. Il Regime Fascista tenta di appropriarsi in ogni modo del giovane eroe, ma lui è troppo furbo e riesce sempre a smarcarsi. Perché lui è Meazza. Mussolini, che ovviamente stravede per lui, tenta anche di portarlo a Roma per andare a giocare tra le fila della Lazio, ma Meazza rifiuta con classe e determinazione. È milanese fino al midollo e non intende farsi fagocitare dalla politica. Ad anni di distanza, soffrirà molto alla notizia che il suo primo allenatore e maestro nell’Inter, l’ebreo ungherese Arpad Weisz, è stato deportato. E quando seppe della sua tragica fine ad Auschwitz, ricorda il nipote, "provò lo stesso dolore di un figlio che perde il padre". La sua carriera, dopo una parentesi al Milan (e le lacrime quando si trovò a segnare alla “sua” Inter), si concluse nel 1947, a 37 anni. La sua fama negli anni d’oro a Milano lo aveva reso leggendario. Amante della bella vita, elegantissimo, i capelli sempre impomatati con la brillantina, grande ballerino di tango, amatissimo dalle donne.
Di lui scrisse Gianni Brera: "Grandi giocatori esistevano al mondo, magari più tosti e continui di lui, però non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario". Parla ancora il nipote: «Io lo ricordo bene il nonno, fu il primo a portarmi allo stadio e una volta mi portò addirittura negli spogliatoi prima di una partita. Ero piccolino ma ho nitida l’immagine di Sandro Mazzola che saltellava. Il nonno era molto legato a Facchetti e a Mazzola. Era un amante del bel calcio e mi diceva sempre che il grande calciatore giocava tenendo la testa alta. Notò questa caratteristica in Franco Baresi che aveva appena esordito in serie A e del quale mi parlava molto bene predicendogli un grande futuro. Il nonno era super-interista ma era anche molto sportivo nei confronti delle altre squadre italiane, che sempre sosteneva nelle Coppe Europee, comprese Milan e Juve nelle quali peraltro giocò qualche anno. Allo stadio aveva l’abitudine di voler uscire 15 minuti prima della fine per evitare il traffico e purtroppo mi fece “perdere” parecchi gol. Appena ci alzavamo per andare via ricordo il consueto applauso da parte della Tribuna d’Onore. E lì mi resi conto di avere davvero un nonno speciale". Il 2 marzo 1980 gli intitolarono lo stadio di San Siro, il tempio del calcio. "Quando gli dedicarono lo stadio, prima di un derby, Milan-Inter 0-1 gol di Oriali, ricordo perfettamente la cerimonia. C’erano il sindaco Carlo Tognoli, il presidente Fraizzoli con la moglie signora Renata, l’avvocato Prisco e il presidente del Milan Colombo, oltre naturalmente a noi familiari e ad altri rappresentanti del mondo sportivo. Una grande emozione". E peccato che ora lo stadio Meazza sembri destinato a venire abbattuto.