
Alberto Lucchini, coordinatore della terapia intensiva generale, con Giuseppe Foti, direttore della terapia intensiva
"Ciao, sono Valentina, l’infermiera che si è presa cura di te stasera. Sei stata ricoverata al pronto soccorso per un malessere. Durante la notte ti hanno ricoverata in terapia intensiva. Sei ancora qui". “Qui” è “un reparto molto speciale”. Dove ogni paziente trascorre "i momenti terribili in cui ero in uno stato di sonno". Un mondo sospeso tra la vita e la morte. Dove le infermiere cercano di "camminare a passo leggero per evitare di svegliarti, mentre controllavo i parametri vitali".
Appunti dalla terapia intensiva. Ricordi ed emozioni di medici, infermieri e famigliari. Che riavvolgono il nastro di "questi giorni in cui non ero presente". Diari che "mi hanno aiutato a capire cosa è successo, anche cosa stava passando mia figlia quando i dottori la chiamavano per dirle che forse non ce l’avrei fatta...". Piccoli quaderni che non sono soltanto un resoconto potente e commovente del viaggio dei pazienti attraverso le cure, ma diventano "un approccio innovativo per promuovere il benessere psicologico dei sopravvissuti e delle loro famiglie – assicura Alberto Lucchini, coordinatore della terapia intensiva generale dell’Irccs San Gerardo di Monza –. Sono un esempio concreto di come la medicina narrativa possa integrarsi nelle pratiche cliniche quotidiane, migliorando gli esiti di cura e la relazione terapeutica". Effetti certificati in uno studio pubblicato sulla rivista americana “Dimensions of critical care nursing”. Perché se da un lato "l’essenza del nostro mestiere è inventarsi acrobazie clinico-procedurali per salvare la vita ai pazienti", dall’altra "ci siamo resi conto di avere il grande limite di non sapere che cosa succede, alla fine, ai nostri malati. Noi non dimettiamo nessuno, noi trasferiamo un malato vivo dalla rianimazione a un altro reparto".
Giuseppe Foti è alla guida della terapia intensiva generale, sia adulti sia pediatrica. Nel 2018 ha portato ("merito degli infermieri") anche a Monza i “diari di terapia intensiva“. "Noi siamo come uno tsunami che arriva e solo dopo il suo passaggio vediamo cosa è rimasto, perché i trattamenti che facciamo noi, a seconda di dove lo tsunami colpisce, portano via case, strutture o quasi niente – racconta Foti –. Immaginiamo di chiudere gli occhi e pensare di rimanere addormentati quindici giorni: in quei quindici giorni lì potrebbe capitare di tutto, magari perdersi il primo Natale con un figlio appena nato". Ecco, i diari aiutano a ricostruire un pezzo di vita, ma anche suggeriscono le cure migliori oltre le dimissioni.
In reparto c’è anche una Polaroid. Con l’autorizzazione degli interessati "scattiamo delle foto che mettiamo nel diario - insieme ai biglietti dell’autostrada o ai bigliettini di auguri -, perché i pazienti hanno difficoltà a ricollocare la loro condizione quando tornano a star bene, a loro si spegne la luce e la riaccendono dopo diversi giorni".
Il diario è uno strumento anche per entrare in contatto con le famiglie dei pazienti. Mogli, mariti, figli che hanno trascorso settimane fuori dalla porta della terapia intensiva sopportando tutto il carico di tensioni e paure e che, appena il parente ricoverato inizia a stare meglio, crollano. Ma "ci siamo trovati a gestire dei dialoghi con persone che invece non sono sopravvissute al ricovero intensivo. Eppure, in maniera inaspettata, i famigliari ci hanno chiesto di poter leggere i loro diari, per dare senso agli ultimi giorni del loro caro".
In ogni caso, "l’assistenza a una persona è fatta anche di gesti semplici. Il fatto di vedere un famigliare o un amico, anche se non cosciente, pulito, pettinato o ordinato nel letto, infonde un’idea di cura, di attenzione. Di affetto". Il momento più difficile è "la prima nota, quando devi raccontare a una persona perché si trova qui. E poi le note di quando le cose vanno male". Perché "diciamocelo, questo è un postaccio", riconosce Foti.
Lui ha trascorso una notte su un letto della “sua“ terapia intensiva con sua figlia di sei mesi: "Le cose che andavo in giro a raccontare le ho capite tutte quella notte lì, col materasso che si gonfia e si sgonfia e ti impedisce di dormire e l’orologio col tempo che non passa mai. Eppure vivo buona parte delle mie giornate qui da 32 anni". Chi non è vaccinato a queste esperienze, prova a sopravvivere. E quando ritrova la forza, ex paziente o famigliare che sia, inizia a sfogliare il suo diario per "coprire i buchi di quei giorni in cui non ci sono stato". Magari lo fa "in pillole perché sono emozioni troppo forti". Sfoglia le pagine di un pezzo della tua vita. Fino a scoprire, tra le righe scritte da una delle “tue“ infermiere, che "piano piano la stanno svezzando dal respiratore e spero di sentire presto la sua voce".