MARCO GALVANI
Cronaca

"La guerra? Il fronte oggi è il San Gerardo"

Il tenente colonnello Marco Murrone fa parte del contingente di medici militari mandati in Brianza, nella prima ondata era stato a Lodi

di Marco Galvani

"Su un fronte di guerra la paura c’è, ma durante le missioni all’estero si vive più la speranza che non succeda qualcosa di brutto. Qui, invece, qualcosa di brutto è già successo e sta succedendo. Qui stiamo affrontando il problema, all’estero si va preparati per affrontare qualsiasi emergenza, nella speranza che non succeda nulla. Si dà supporto alle truppe o alla popolazione locale". Come in Libia. L’ultima missione internazionale del tenente colonnello Marco Murrone, dopo il Kosovo, la Bosnia e quella "molto impegnativa" in Afghanistan. Adesso è stato chiamato al “fronte“ del San Gerardo insieme ad altri medici e infermieri dell’Esercito.

"Oggi è qui la grande emergenza nella seconda ondata". Anestesista rianimatore, di stanza al centro ospedaliero di Baggio a Milano, figlio di militari, "ho risposto con entusiasmo alla chiamata qui a Monza dove, giovane medico, ha fatto dei turni da specializzando e poi da specialista".

Nella prima ondata siete stati subito arruolati nelle zone più calde. Oggi la missione è la stessa?

"Il 4 marzo siamo stati i primi medici ad arrivare a Lodi. Lì c’era uno stato di emergenza. Un altro gruppo, invece, è andato nella Bergamasca. In quel momento erano i posti più critici. Qui a Monza adesso c’è la necessità di riprendere l’attività ordinaria a pieno regime, ci sono tanti colleghi civili in malattia a causa del Covid e quindi era necessario un nostro supporto. A Lodi siamo stati smistati nell’ospedale in base alle nostre competenze, l’anestesista in terapia intensiva, chi aveva un’esperienza più internistica andava nei reparto Covid di base, inserendosi in realtà già costituite. Qui al San Gerardo siamo 5 medici e 10 infermieri (altri 5 medici sono all’ospedale di Desio, ndr), ci hanno affidato un reparto Covid, ma per il momento con una gestione mista con i colleghi civili. Poter contare su di loro per noi è fondamentale. L’idea è di diventare autonomi anche se ci vuole tempo e poi bisogna vedere quanto durerà questa esigenza e quando rientreremo alla base. Pronti, comunque, a tornare in prima linea nel caso di una eventuale terza ondata".

Siete quindi una riserva strategica quando la situazione si fa più pesante, quando entrano in difficoltà il sistema sanitario nazionale o la protezione civile in caso di calamità. La spalla su cui il Paese si appoggia quando non ce la fa a reggersi in piedi da solo. Che cosa significa per voi questa chiamata?

"Poter lavorare dentro a un ospedale civile per noi militari è fonte di orgoglio. Siamo medici e quindi con la missione di curare i pazienti, ma siamo anche militari che entrano in azione quando ci sono emergenze. Anche all’estero. Ma adesso la popolazione in difficoltà è la nostra. E siamo qui. Al servizio dell’Italia".

Voi che avete visto scenari di guerra, le corsie degli ospedali possono essere considerate come delle trincee?

"Direi di sì. Quando tutto viene stravolto, tutti i reparti si annullano temporaneamente e si concentrano sul Covid è uno stato di emergenza come al fronte. Noi, ad esempio, siamo in un reparto che fino a qualche settimana fa era di chirurgia plastica. Adesso ci sono pazienti Covid che hanno bisogno di supporto di ossigeno anche con la C-pap e la maschera facciale. E molti sono anziani, con tutte le loro altre patologie di cui si occupano i colleghi civili".

Come convivete con la tensione e la paura del contagio?

"Un po’ di paura è umana, ti aiuta a mantenere alta l’attenzione e la concentrazione. I primi giorni che arrivai a Lodi avevo paura di non tornare a casa, ma dopo pochi giorni si è creato un gruppo affiatato, noi e i colleghi civili... e poi vai via con le lacrime. Ci sarei rimasto".

Alcuni medici e infermieri iniziano a manifestare disturbi post-traumatici tipici di chi rientra da zone di guerra...

"Forse è ancora presto. Siamo ancora dentro. Sicuramente i veri medici al fronte sono stati i colleghi civili. Nella prima ondata c’è stato lo spirito di affrontare un’emergenza improvvisa, hanno, abbiamo dato tutto. In questa seconda ondata, invece, è subentrata un po’ di stanchezza, un po’ del cosiddetto burn out: “Oddio ci risiamo“, abbiamo pensato tutti. Psicologicamente questa seconda ondata ha inciso di più sul personale sanitario. Però poi c’è l’orgoglio e la gratificazione di curare come medici e aiutare come militari. Di essere utili al nostro Paese".

Natale in corsia anche per voi medici e infermieri militari?

"Probabilmente sì, ma va benissimo così".

Fedeli, sempre, al loro motto. Proteggere la vita del fratello.