Difesa dei baby killer del pusher: in Cassazione contro la condanna

Gli avvocati Renata D’Amico e Maurizio Bono puntano a fare riconoscere un’infermità mentale quanto meno parziale per il 14enne e il 15enne: per il perito erano incapaci di intendere e volere

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di Stefania Totaro

Gioca l’ultima carta del ricorso alla Corte di Cassazione la difesa dei due baby killer del pusher delle case popolari di San Rocco. Gli avvocati Renata D’Amico e Maurizio Bono puntano a fare riconoscere un’infermità mentale quantomeno parziale per il 14enne e il 15enne che il 30 novembre 2020 hanno inferto più di 30 coltellate a Cristian Sebastiano, 42 anni, di fronte alla sua abitazione in via Fiume nel quartiere San Rocco.

Dopo che i giudici della Corte di Appello di Milano sezione minori hanno confermato la condanna di primo grado a 14 anni e 4 mesi di reclusione con il rito abbreviato, disattendendo la perizia psichiatrica da loro stessi disposta sui due ragazzini da cui sarebbe emersa un’incapacità di intendere e di volere al momento dell’omicidio.

Nella loro motivazione la Corte di Appello sezione minori del capoluogo lombardo ha evidenziato per i due baby killer "un carente sviluppo della sfera emotiva" ma a loro dire "non risultano provate compromissioni psicopatologiche che possano avere avuto incidenza causale sui reati commessi quindi risulta "pienamente sussistente la capacità di intendere e di volere degli imputati al momento dei fatti".

I giudici hanno individuato, dalle relazioni psicologiche degli specialisti che ora hanno in cura i due ragazzini, rinchiusi in due diversi carceri minorili, la presenza di gravi "disturbi della condotta" causati "dalle importanti privazioni affettive subite da entrambi nelle famiglie di origine" ma che "non hanno in concreto assunto consistenza e intensità tali da incidere sulla loro capacità di intendere e di volere" anche considerato che l’omicidio di Cristian Sebastiano "è stato consumato con modalità talmente efferate da renderlo di elementare percezione nel suo livello di disocialità".

Nessun nesso causale, per la Corte di Appello, con l’omicidio che "dalle dichiarazioni rese a più riprese dagli imputati" è da fare risalire "a non meglio accertati rapporti di dareavere con la vittima legati al traffico di stupefacenti". Per i giudici milanesi non sussiste neanche la non imputabilità causata da immaturità o dall’abuso di sostanze stupefacenti da parte degli imputati sin dalla preadolescenza.

"Gli imputati hanno attirato Cristian in un vero e proprio agguato, contattandolo da un telefono pubblico... munendosi di armi da taglio e il 14enne pure di una fondina artigianale dove custodire il coltello... dopo l’aggressione sono andati a casa a lavare i coltelli e a cambiare i vestiti, un complesso di elementi che non lascia margini di dubbio sulla piena capacità di rappresentarsi il significato e le conseguenze della sanguinaria azione". Sul fronte della dipendenza dalla droga, invece, "la documentazione medica non certifica uno stato patologico permanente al di là del consumo di sostanze stupefacenti tale da configurare una malattia psichica". Anche se gli imputati "hanno iniziato a fare uso di droghe all’età di 11 anni, prima con la cannabis e progressivamente con la cocaina o l’eroina".

Resta infine la questione delle dichiarazioni rilasciate in aula dal perito psichiatrico, che sembravano propendere per un’infermità mentale. Per i giudici "le conclusioni del perito non sono congruenti con le conclusioni della perizia depositata".