Tullio Solenghi in scena al Carcano di Milano: “Essere Gilberto Govi (col trucco). Il teatro popolare è nel mio dna"

Attore e regista ne ‘I maneggi per maritare una figlia’: ho clonato il personaggio, riproposizione maniacale. “Avrei voluto fare più cinema, magari con Lina Wertmüller. Ma non è un pensiero che mi toglie il sonno”

Tullio Solenghi con Elisabetta Pozzi ne “I maneggi per maritare una figlia”, grande classico della comicità di Gilberto Govi

Tullio Solenghi con Elisabetta Pozzi ne “I maneggi per maritare una figlia”, grande classico della comicità di Gilberto Govi

Milano – Essere Gilberto Govi. Possibile? Sfida eroica. Quasi una provocazione sotto la Lanterna. Ma Tullio Solenghi non si è lasciato intimorire. E così non solo ha riportato in vita “I maneggi per maritare una figlia“, cavallo di battaglia assoluto dello storico attore genovese. Ma in scena quasi non si riconoscono più i tratti dell’ex Trio. Come posseduto dalla maschera del Govi. Bella intuizione. Che da due anni sbanca i botteghini liguri e ora si prova col resto della penisola, da domani a domenica al Carcano. Tutta nel titolo la commedia di Bacigalupo. Con Elisabetta Pozzi al fianco del protagonista, che qui firma anche la regia.

Solenghi, sul palco la somiglianza è straordinaria.

"Sì, temevo l’imitazione e così ho pensato di fare una clonazione... Credo però sia l’unico modo per restituirlo, non solo ai genovesi. Perché Govi funziona a ogni latitudine, due settimane a Roma sono andate benissimo".

Qual è il segreto?

"È un tipo di teatro per cui c’è molta nostalgia. Un teatro che si basa sull’intreccio, sugli attori, sulla mimica, il trucco. Negli ultimi cinquant’anni il palcoscenico è scivolato spesso verso l’autoreferenzialità, spettacoli fatti per amici e colleghi. Il nostro progetto torna a considerare il pubblico e la natura popolare del palcoscenico".

Lei cosa aggiunge alla tradizione?

"C’è un colpo di scena finale che è un po’ il mio marchio di fabbrica. Per il resto ho condiviso il desiderio di riscoprire una foto d’epoca. Non a caso Davide Livermore ha pensato a un allestimento in bianco e nero. Una di quelle immagini che uniscono nostalgia e illuminazione, raccontandoci la nostra storia. Io mi ci sono avvicinato con grande rispetto, salvaguardando il vernacolo. Una riproposizione maniacale, tanto che a Genova gli spettatori si stupiscono quando mi vedono, sembra che Govi sia risorto".

Quanto sta al trucco?

"Adesso un’ora, prima di più. Ma quello che pesa è ripulirsi: mezz’ora di scollamenti dopo lo spettacolo".

Che rapporto ha con il teatro?

"Ci sono cresciuto, è lì che nasco. Poi è arrivato il resto, l’avventura della tv, prima da solo e poi col Trio. Ma è qui il mio dna".

Ha sempre avuto una simpatia per la comicità?

"Quella sicuramente. Pensi che al provino per entrare allo Stabile di Genova portai “A Silvia“ di Leopardi declamata nei vari dialetti italiani, scatenando l’ilarità di Luigi Squarzina. Già allora sfogavo il mio amore per il cabaret e il teatro leggero, appellattivo a dir poco ingeneroso. Mi sono presto specializzato nella risata".

Maestri?

"Squarzina era un professore dalla cultura smisurata. Ma io sono davvero in debito con i grandi attori e le grandi attrici: Alberto Lionello, Tino Buazzelli, Eros Pagni, Lina Volonghi".

Se non ci fosse stato il Trio?

"Avrei comunque fatto l’attore brillante. Ma a teatro mordevo il freno, volevo essere autore di me stesso. Dopo gli spettacoli improvvisavo spesso nel foyer una parodia di quello che avevo appena portato in scena. Sciagurate rivisitazioni, pensate solo per gli amici. L’idea dei Promessi Sposi nasce in quelle nottate".

Idea dal discreto successo.

"Per farlo rifiutammo di condurre Fantastico, la Rai non la prese benissimo. Ma credo che fu la scelta giusta. I Promessi Sposi sono diventati un cult".

La giornata più bella?

"Quando ci telefonò un funzionario per comunicarci i dati di ascolto: avevamo fatto 14 milioni e mezzo di spettatori, ci riusciva solo la nazionale di calcio. E pensare che il progetto era stato un totale azzardo: mai prima di allora ci si era concessi una comicità così continua, per sei puntate di un’ora ciascuna. Di solito le risate venivano intese come brevi parentesi all’interno di contenitori diversi. Fu un momento molto bello".

Avrebbe voluto fare più cinema?

"Forse sì. Mi piaceva il film di Lina Wertmüller “Metalmeccanico e parrucchiera...“. Ma non è un pensiero che mi toglie il sonno".

Qualcosa di cui si pente?

"Anche i mattoni più storti sono stati fondamentali per tirare in piedi l’edificio. Le esperienze negative mi hanno regalato la complessità di questo mestiere, i suoi chiari e i suoi scuri".

Continuerà con Govi?

"Sicuramente. A settembre faremo “Pignasecca e Pignaverde“ e intanto giro anche con Massimo Lopez. D’altronde noi pensionati dobbiamo pur trovare il modo di riempire le giornate".

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