
Morando Morandini
È morto sabato sera a Milano, all’età di 91 anni, il critico cinematografico Morando Morandini, per molti anni prima firma del nostro giornale. Nessun funerale per lui, grande laico, solo una cerimonia civile. Martedì mattina dalle 10 in poi camera ardente al cinema Anteo in via Milazzo 9. Il grande Morando è stato ricordato anche dal presidente della Regione Maroni e dall’assessore alle Culture, Identità e Autonomie Cristina Cappellini che hanno espresso il cordoglio del governo regionale per la scomparsa del decano della critica cinematografica: “Con la scomparsa di Morandini il mondo del cinema non perde solo l’autore del notissimo e omonimo dizionario, ma un uomo che alla settima arte ha dedicato tutta la vita, con scrupolo e dedizione”.
Milano, 19 ottobre 2015 - Nessun bambino ha mai sognato di fare il critico cinematografico. Nella lucida pratica della statistica, perseguita tutta la vita per appoggiare opinioni e giudizi a una bella lavagna chiara per tutti, Morando era certo di essere l’unico. Non subito. Non nell’infanzia, a Monte Olimpino, una frazione di Como dove la famiglia si spostò negli anni ‘30 da Milano e dove non c’era niente, figuriamoci una sala cinematografica, ma poco dopo, a Milano.Nello sfarzoso liberty dell’Odeon, che oggi un braccio a uncino della Rinascente sta trasformando in centro commerciale, c’è un inizio fuori dal comune, considerando soprattutto i tempi: “Ho visto ‘È arrivata la felicità’, con Gary Cooper, nel 1937. Ero con mia madre. Per me era già un film di Frank Capra, non soltanto con Gary Cooper. Tra il ‘36 e il ‘37 incollavo su un quadernone le recensioni di f.s., Filippo Sacchi, e meravigliavo le amiche di mia madre perché conoscevo a memoria i nomi degli attori e delle attrici. Il mio idolo era Jean Gabin.
Avevo 14 anni quando lessi il mio primo libro sul cinema: ‘Come si scrive un film’. Era un regalo di mia madre, con questa dedica: ‘A Morando, che non vuole diventare regista’. Fino a poco tempo prima, per la disciplina di mia madre, leggevo a letto di nascosto, con una lampada tascabile sotto le lenzuola. Introverso com’ero, anche a causa della balbuzie, ero un lettore vorace, tanto da diventare miope. Viaggiavo. Evadevo, forse”.Ora che Morando non sarà più in sala, in mano la stilo-con-pila su quadernetto nero, lasciandoci più poveri e soli, certe confidenze estorte mi sembrano le più svelte a riportare subito la sensibilità, l’emotività, e una tenerezza di sguardo, sul cinema, sulle persone, sui fatti, che gli dovevi ascoltare, come un cuore in movimento nel corpo dritto, mai flesso, di un intellettuale serio, coltissimo. A meno di non leggere le sue parole. Le recensioni di Morando sono la prova costante, nei decenni, nella storia del giornalismo italiano, nella popolarità del suo dizionario (“Il Morandini” di Zanichelli), di un vero scrittore “sacrificato” alla carta stampata fugace, e lì era insuperabile la combinazione tra “sense and sensibilty”, la passione, il gusto, l’intuito nel filtro di una ragione dinamica e informatissima. Non solo in confidenza, ma anche nelle occasioni ufficiali (l’ultima l’anno scorso ritirando l’Ambrogino d’oro alla carriera) Morando esponeva la sua professione con una riserva: “Sospetto di aver passato la vita contro un muro”. Ma sapeva che i fantasmi sul muro erano più vivi dei vivi. E anche questa storia del critico davanti ai film come un eunuco contemplatore delle donne, diffusa come un marchio da quando scrisse “Non sono che un critico”, è un po’ una balla. Sapeva benissimo che il critico è uno spettatore, è un lettore, e il film esiste perché esiste lo spirito critico, attivo, vivo, tra gli amici spettatori, tra i lettori.
Morando cominciò a fare il critico sul quotidiano cattolico “L’Ordine” di Como nel 1946, come vice della latinista Bice Scolati. Quando diventò titolare, per 25 anni, al “Giorno”, dopo la morte di Pietrino Bianchi, aveva alle spalle il celebre quinquennio alla “Notte” (celebre per la nascita in Italia delle sue stelline di giudizio, e all’inizio come vice di Enzo Biagi), l’avventura di “Stasera”, e un decennio, sempre al “Giorno”, prima come critico di varietà (la fine del varietà, a cui dedicò il memorabile “Sessappiglio”) e poi televisivo. Mi raccontò che all’indomani della morte di Bianchi, il direttore Afeltra lo chiamò per scegliere, o il cinema o la tv: “Scelgo il cinema. Afeltra scosse la testa, compatendomi. Aveva già capito che cosa sarebbe diventata la televisione”. La vita al buio di Morando ha costantemente illuminato di senso la nostra attraverso i film come una corrente, ci ha accompagnato per sollecitazioni, scoperte, rifiuti, legami, associazioni sulla realtà giorno dopo giorno nel corso del tempo. Grazie Morando.