La Misericordia secondo Emma Dante: "Vi racconto la capacità di amare"

La regista torna al teatro Grassi con tre tessitrici, un 'picciriddu', un dialetto stretto e spigoloso

Al Grassi il nuovo lavoro della regista Emma Dante

Al Grassi il nuovo lavoro della regista Emma Dante

Milano, 11 gennio 2020 - Emma torna a casa . Nel senso che torna al Piccolo, accogliente tinello milanese. Ma anche (e soprattutto) al proprio, personalissimo orizzonte artistico. Questa almeno la sensazione di fronte a “Misericordia“, martedì al debutto al Grassi, nuova produzione dopo il bizzarro “Bestie di scena“. Con la regista palermitana a firmare testo e regia di un lavoro affidato sul palco a Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco, Leonarda Saffi e Simone Zambelli. Si torna alla parola: dialettale, stretta, spigolosa. E a quei margini domestici di ombre e di sangue. Da cui emergono le figure di tre donne. Tre tessitrici (tre parche?) che la notte siedono sull’uscio a vender se stesse. Che la povertà morde forte alle caviglie. Eppure quando ci sarà da aiutare un picciriddu non ci penseranno due volte.

Emma Dante, ci racconti dello spettacolo. "È un lavoro sulla capacità profonda e inesauribile di amare. Nonostante il tugurio, la prostituzione, la convivenza forzata dal bisogno, queste donne scelgono di prendere con sé un ragazzino difettoso, menomato dalle botte del padre e orfano della madre, morta appena dopo il parto. È un ragazzino di legno perché rigido, senza articolazioni. E lo spettacolo racconta come questa rigidità riesca gradualmente a sciogliersi, con il corpo ad acquisire una sua morbidezza". Un gesto misericordioso? "Esattamente. Non così frequente in questo periodo. Un percorso verso la vita. Di madri che lo sono senza esserlo. Dietro la tragedia c’è anche molta leggerezza. Alla fine è uno spettacolo vitale. E quando finisce sei scosso. Come se riuscisse a dare un piccolo pizzicotto". Di nuovo il suo orizzonte famigliare. "Ma non è uno spettacolo “a tema“, concetto che mi fa orrore. Parli della mafia, della disabilità, delle donne ed è come se non potessi raccontare nient’altro. Finisce che ti imprigioni da sola. Invece il mio lavoro è condividere tante cose, poi decide lo spettatore cosa prendere. Come ormai sono insofferente a questa cosa delle donne o di Palermo". Cosa intende? "Come regista donna si arriva sempre al tema del femminile oppure si sottolinea il mio legame con Palermo. Francamente mi sembrano cose naturali. Se un uomo scrive uno spettacolo con al centro il suo universo maschile nessuno gli chiede mai il motivo per cui sta parlando di uomini. Idem se magari è di Bergamo e ambienta il lavoro nella sua città, dubito che qualcuno si faccia chissà quali interrogativi al riguardo. Mi rendo conto che Palermo abbia un carattere forte, un certo immaginario teatrale. Ma in realtà è solo una questione di sguardo, lo si può ritrovare ovunque". Com’è il dialetto sul palco? "Stretto, una lingua ermetica dalla natura complessa per chi non la frequenta. Ma diventa leggibile una volta accompagnata coi corpi e il movimento frenetico nello spazio. Certo nell’osservare devi lasciarti andare, affidarti al fatto che non stiamo facendo intrattenimento, nonostante i tempi tendano a semplificare, a non risultare complessi. Cerchiamo ancora di lavorare per rimanere vivi, per tenere lo spettatore sul pizzo della sedia. Non mi occupo di catturarlo, che faccia quello che vuole, la responsabilità è sua nel preferire una cosa o l’altra. Ma se mi sceglie sa che deve mettere in conto la dedizione, una capacità di attenzione, almeno per quell’oretta scarsa. Non spetta a me trovare strumenti. Io mi limito al gesto artistico, ad altri il lavoro di mediazione. D’altronde non posso invitare la gente a stare davanti al mostro". 

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