
Umberto Di Donato
Milano, 29 agosto 2019 - «Senta, senta». Il signor Di Donato batte sulla Continental, accarezza i tasti. Ma cosa si dovrebbe sentire di preciso? «Ma come, ascolti il suono, e provi anche a battere i tasti. Più forte! Senta che meccanica perfetta, è una tedesca del 1927». Umberto Di Donato ha 2.200 macchine da scrivere, molte sono in un magazzino fuori città, 600 sono esposte al suo Museo in via Menabrea 10. Qui ci sono pezzi con caratteri in cinese, greco antico, ebraico, arabo, braille, cirillico. Inutile citare le moltissime Olivetti, affascinano soprattutto i primi esemplari americani degli anni 80 dell’Ottocento, con sistemi di battitura complicatissimi e circolari. Dopo uno stretto labirinto tra scaffali di macchine appartenute a personaggi noti («Qui Camilla Cederna, qui Hemingway, qui Barbie», guida Di Donato) si arriva in una stanza dove ci si trova circondati da centinaia di questi oggetti un tempo all’avanguardia. Per i nativi digitali è un tuffo in un passato sconosciuto in cui non si doveva sfiorare la tastiera ma la si doveva proprio battere, con una forza che impressiona se confrontata ai timidi sfioramenti attuali.
La prima macchina che ha utilizzato?
«Da giovane. Mio padre lavorava al distretto militare di Caserta come impiegato. Io studiavo all’Istituto tecnico che era all’interno della Reggia, perché la città aveva subito molti bombardamenti durante la guerra, e mancavano gli immobili. Mio padre dopo scuola mi invitava spesso a passare da lui per imparare a scrivere a macchina. Per fortuna gli ho dato retta».
Come le servì?
«Prima al servizio militare, per cui avevo fatto domanda volontaria. Restai tre anni nella guardia di Finanza a Novara e non ho feci mai servizio esterno perché ero uno dei pochi a saper battere a macchina».
Come arrivò a Milano?
«Grazie alle macchine da scrivere. Feci domanda alla Banca Commerciale Italiana, mi fecero dei test scritti che andarono bene. “Ma cos’altro sa fare?”, mi chiesero. So scrivere a macchina. Mi misero davanti a una macchina da scrivere e mi dettarono un articolo. Bastò poco a convincerli, il giorno dopo ero assunto».
Allora pochi sapevano scrivere a macchina?
«Solo le scuole private potevano permettersi di insegnare dattilografia, perché le macchine da scrivere costavano moltissimo e insegnare a una classe intera significava acquistare 30. Nel Museo ho la fattura d’acquisto di una macchina nel 1935: 500 lire, allora con quei soldi si comprava un appartamento».
La prima che acquistò?
«Il mio primo appartamento a Milano fu in piazza Castello, in una stanza condivisa. Il mio compagno di stanza era un agente della Olivetti. Chiesi a lui di acquistarmela perché aveva il 50 per cento di sconto e insieme gli regalavano il disco “Musica per parole” che insegnava a dattilografare».
Come arrivò a 2200 pezzi?
«Quando cambiavamo tipo di macchine alla Banca commerciale ne tenevo sempre una di ricordo. Perché ci si affeziona alle cose, oltre alle persone. Quando andai in pensione ne avevo circa 400 in ogni angolo di casa, anche sotto il letto: mia moglie voleva buttare fuori me. Nel frattempo scoprii anche che l’ultima fabbrica al mondo che le produceva aveva chiuso. Nel 2005 aprii un piccolo spazio in Corso Lodi per mostrarle al pubblico. Visto il successo, nel 2007 comprai questo spazio più grande con i miei risparmi. Da quel momento cominciarono ad arrivarmi molte donazioni da privati, eredi che non sapevano che fare di quegli oggetti».
Non solo conserva le macchine ma a fianco spesso mette i libri “risultato del loro lavoro”, perché?
«Perché tutte hanno un’anima, non sono solo macchine, hanno tutte una storia, gloriosa o privata, che io racconto ai visitatori».