SILVIO DANESE
Cultura e Spettacoli

Fondazione Cineteca, i film di Antonioni più veri del vero: vita in presa diretta

Omaggio a 10 anni dalla morte

Carlo Di Palma e Michelangelo Antonioni

Milano, 4 giugno 2017 - Tanto per ricordarne due in uno, il grande Umberto e Michelangelo il Magnifico, in occasione dei dieci anni dalla scomparsa di Antonioni (30 luglio 2007), c’è quella striminzita, ma acutissima considerazione di Eco su uno dei film più importanti e riusciti: «Di fronte a “L’avventura” ci si chiede se in molti momenti esso non avrebbe pouto essere il risultato di una ripresa diretta». Sembra poco, ma è tanto. Dice, e ci ricorda, il semiologo, che in un film di Antonioni ci si confonde e ci si abbandona con i personaggi a qualcosa che ci sta accadendo senza che nulla sia deciso, e d’altra parte è letteratura che il maestro trafugasse uno “stop” lasciando invece libera la cinepresa sui suoi attori.

Ricordiamno uno dei massimi autori della storia del cinema moderno con Fondazione Cineteca (da domani al 13 al Mic) nella rassegna “Omaggio ad Antonioni”, con cinque lungometraggi - “Il deserto rosso” (1964), “Professione Reporter” (1975), “Zabriskie Point” (1970), “Identificazione di una donna” (1982), “Al di là delle nuvole” (1995) - e due documentari, “Blow Up di Blow Up” (in anteprima a Milano), di Valentina De Agostinis, sulla lavorazione del film, e “Acqua e zucchero – Carlo Di Palma, i colori della vita”, un ritratto del grande direttore della fotografia che fu sul set con Antonioni per diversi titoli. Simpatico, e interessante, già incontrato il doc su Di Palma, è invece un bel viaggio “dentro il film” il doc della De Agostinis, nel quale troviamo, tra gli altri, l’ex assistente ai dialoghi Piers Haggard, il fotografo David Montgomery, nel cui studio Antonioni si recò per osservare da vicino le tecniche della fotografia di moda, la modella Jill Kennington, che prese parte a una delle più famose sequenze del film e la testimonianza dell’amica di allora, la regista e sceneggiatrice Clare Peploe, che racconta per la prima volta come avvenne l’incontro tra il regista e David Hemmings.

I film? Da vedere e rivedere, sempre. Se fosse un altro mondo Fellini e Antonioni starebbero nei programmi scolastici. In cinquant’anni, se si lasciano fuori i documentari (dal primo “Gente del Po” a “Chung Kuo Cina”) e i cortometraggi per i film a episodi (“Tentato suicidio”, “Il provino”), Antonioni ha diretto 15 lungometraggi, dall’esordio con “Cronaca di un amore” (1951), piombato sul neorealismo di De Sica a sollevare una piccola rivoluzione. Grande cineasta metafisico è stato Antonioni, come Bresson, Ozu, Dreyer, Bergman.

È stato facile attaccarlo e liquidarlo per la presunta assenza di peso drammaturgico delle sue sceneggiature (scritte quasi tutte con Tonino Guerra). Dino Risi teneva una battuta pronta: «Antonioni ha inventato l’incomunicabilità perchè non sapeva scrivere dialoghi cinematografici». Ma poi si è ricreduto. Se vogliamo vedere, poi, una non indifferente capacità di contesto e suscettibilità sociale, come ne “I vinti” (1952) e “La signora senza camelie” (‘53), tutto incominciò veramente con “Il grido”, nel 1957.