Ascanio Celestini al Teatro Franco Parenti: "Il mio Pueblo delle periferie"

L’intervista all'attore: "Racconto i luoghi di confine perché se ne parla solo in cronaca. E invece è proprio lì che le cose accadono"

Ascanio Celestini

Ascanio Celestini

Milano, 21 aprile 2018 - La finestrasul cortile. O meglio: sul parcheggio cementificato. Le vite a incrociarsi senza nemmeno accorgersene. In una tavolozza di grigi che si apre improvvisa ai colori della vita vera e stravissuta, quando ci metti un attimo a capire se quelle lacrime sono pianti o sorrisi. Ascanio Celestini torna nelle periferie. Ma forse non se ne è mai andato. In scena l’orizzonte che già faceva da sfondo a “Laika”, lo spettacolo precedente. Ma ora tocca a “Pueblo”, da martedì al Franco Parenti. Una narrazione polifonica. Con l’attore romano affiancato dalle musiche di Gianluca Casadei.

Celestini, da dove nascono le storie?

«Dallo sguardo di un narratore alla finestra. È lui che racconta quello che vede nel quartiere. Un luogo delimitato da due parcheggi, quello del supermercato e quello del grande magazzino».

Perché di nuovo le periferie?

«Perché se ne parla solo in cronaca. A me invece interessa come luogo nel quale semplicemente le cose accadono. C’è tutta una retorica legata a certi quartieri, una visione paternalista, come quando si dice “portiamo la cultura nelle periferie”. Ricordo qualche anno fa che intervistai un deportato di un rastrellamento al Quadraro di Roma, il quartiere dove vive mio padre. Gli chiesi come mai non avesse mai parlato. E lui mi rispose “Io ne ho parlato ogni giorno, solo che ho fatto l’elettricista...”.

Quindi quella voce diviene la sua?

«Diciamo che mi interessano le periferie e le conosco. Qualcun altro magari si sentirà di parlare del presidente di una multinazionale».

Come mai questo titolo?

«C’è ovviamente un riferimento alla gente, al popolo. Ma anche agli Indiani Pueblo: la loro danza della pioggia univa i vivi e i morti, cosa che cerco di far accadere nello spettacolo».

Un personaggio a cui è legato?

«La barbona che vive nel prefabbricato della guardia giurata. Ti accorgi che le cose che fa quotidianamente non sono poi così diverse da quelle di tutti noi, dalla nostra idea di normalità».

Non è stanco di essere sempre solo su quel palco?

«Ma io lavoro in gruppo per le mie ricerche. La vera solitudine è chiudersi in un teatro ad imparare a memoria la parte scritta da un autore morto un paio di secoli fa. Il teatro è un luogo senza finestre, asfissiante. Cerco di starci il meno possibile, anche nei camerini, giusto il tempo di cambiarmi la maglietta. E fuori da lì non sono solo».

Cosa le interessa del teatro?

«Mi interessa l’oralità del rito. Volevo fare antropologia all’università ma analizzandola fuori dal contesto, in qualche modo rompi il meccanismo».

Quanto incidono concretamente sulla realtà questo rito, l’arte, il teatro?

«Non credo sia questo il punto. Le arti non cambiano il mondo. Il teatro è un massaggio per il cervello, con la speranza che il pubblico esca con poche certezze. Quelle appartengono a chi ha un’idea di scrittura pubblicitaria, come i politici, gente che ti deve convincere a comprare».

Cosa si augura per i prossimi mesi?

«Di avere tempo per il lavoro di ricerca. Di riuscire a raccontare ma anche di farmi raccontare».

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