
Vittorio Sgarbi
Milano, 26 novembre 2018 - Niente provocazioni, o battutacce, se preferite. E se a qualcuna non rinuncia (altrimenti che Sgarbi sarebbe?), è provocazione elegante, colta. Addirittura si è calato nei panni di Hegel, il filosofo - permettetela anche a noi una provocazione - più citato che letto, Vittorio Sgarbi nelle primissime righe de “Il Novecento”, il suo ultimo libro, edito da La Nave di Teseo, appena uscito. Esordisce Sgarbi, con decisione: «Lo Spirito del mondo si manifesta in ogni epoca in un determinato luogo». E illustra: «E dunque appare nel Trecento a Padova, con Giotto. È ancora a Padova nel Quattrocento, con Donatello e Mantegna, anche se il baricentro è prevalentemente a Firenze. Nel Cinquecento è a Roma». Ma dopo il primato dell’Italia inizia a vacillare. E, alla fine dell’Ottocento, «l’Italia perde lo Spirito del mondo». Uno spirito che lo storico-critico-polemista indaga, scruta, illumina nelle pieghe e nelle vette dell’arte italiana nelle quasi cinquecento pagine di un illustratissimo volumone scandito in un’inattesa serie, come scrive Franco Cordelli nell’introduzione, di agili «monografie, in genere brevi, a volte brevissime: con il tono dell’appunto, di un fulmineo raccoglimento in sé stesso».
Sgarbi, lei ha di recente riassunto l’arte italiana del secolo scorso con la formula “il Novecento non ha valori acclarati”. Traduzione?
«Rispetto ai principi dell’800 il Novecento da noi si è disperso in tanti regionalismi. A livello internazionale l’Italia si è segnalata con la Metafisica, con De Chirico, con Carrà. Il Futurismo. Poi, mentre esplodeva il Surrealismo francese, il nostro Paese non segnalava più emergenze».
Una raffinata ricostruzione, la sua, priva di spunti particolarmente polemici. Ma non la copertina: Sartorio, chi era colui?
«Giulio Aristide Sartorio, l’autore del fregio dell’aula del Parlamento, nel palazzo di Montecitorio. Dimenticato, addirittura cancellato, da Giulio Carlo Argan. Eppure quel fregio, grandioso, è esattamente contemporaneo alla fondazione del movimento futurista. E Sartorio va considerato allo stesso livello di un Balla o di un Boccioni».
Nessun picco critico, invece, nelle pagine sul fascistissimo Premio Cremona. E neppure sull’osannato e/o detestato Guttuso, anche se il volume si chiude con l’immagine dei mitici “Funerali di Togliatti”.
«Già, il Premio Cremona: una mia trovata formidabile la sua riscoperta, ma non nel senso scelto dalla Fondazione Prada o visto a Forlì: il mio è un no alla retorica elusiva per demonizzare un fenomeno esaurito. Quanto a Guttuso, è stato un pittore significativo ma meno importante di come l’ha fatto apparire la copertura che il Pci dava alla sua narrazione della storia».
L’artista italiano del ‘900 più sottovalutato?
«Gaudenzi, certamente. Anche Pirandello».
Un “Contronovecento”, comunque, il suo...
«È proprio ciò che voleva essere. Come sarà il secondo volume: stesso canovaccio, tre o quattro emergenze, Burri, Fontana, il grandissimo Gnoli, poi un’Italia assente nell’Informale, nella Pop Art, nell’Astrattismo. Fiammate nella Transavanguardia».
È già molto atteso il suo “Novecento” parte seconda. Quando uscirà la galleria dei contemporanei?
«In aprile. Contemporanei ma morti: se avessi inserito anche i vivi, sa quanti sarebbero venuti a bussare alla porta?».