
Gianfelice Facchetti: il mio cognome da giovane pesava, ora è una gioia
Gianfelice Facchetti, 50 anni, residente in zona corso Buenos Aires, lei si sente più attore, scrittore o regista?
"Attore. Nasce tutto da lì per me, anche i momenti da scrittore e da regista. Quando avevo iniziato a lavorare in teatro e sulla carta d’identità bisognava ancora indicare la professione, mi sentivo in imbarazzo a indicare “attore“. In Comune l’addetto all’anagrafe mi consigliò di mettere “spettacoli viaggianti“, cioè giostraio. Quella carta d’identità l’ho conservata: se potessi, rimetterei “spettacoli viaggianti“ come professione".
Essere il figlio di un mito del calcio nazionale e dell’Inter come Giacinto Facchetti è stata più una responsabilità, un peso o una gioia?
"Dipende dalle fasi della vita. Da adolescente, quando stai cercando la tua strada, il confronto con un papà tanto importante pesa. Pensi di dover per forza fare qualcosa di grande per poter essere paragonato al famoso genitore. E comunque sai che il confronto non lo vincerai mai. Una volta intrapresa la mia strada da attore, invece, l’eredità del cognome Facchetti è stata ed è una cosa bella da portare avanti. È un pezzo di storia della mia famiglia".
Ma lei ha provato a fare il calciatore come papà?
"Sì. Sono nato nel 1974 e i bambini della mia epoca giocavano quasi tutti a calcio. In strada, all’oratorio, nei parchi. Io ho giocato fino ai 17 anni nelle giovanili dell’Atalanta. Il mio ruolo? Portiere. Ma a un certo punto ho deciso di mollare con il calcio. Ho fatto un corso di recitazione. Ed eccomi qui".
I suoi ultimi spettacoli, dal racconto del Grande Torino alla storia tragica dell’allenatore ebreo dell’Inter Árpád Weisz, morto nel campo di concentramento di Auschwitz, fondono il mondo dello sport e la storia d’Italia. È questa la sua caratteristica di autore e di artista?
"Quando ho cominciato a scrivere testi per il teatro, vent’anni fa, la prima storia trattata non era lontana dai miei spettacoli più recenti. Lo spettacolo si intitolava “Bundesliga ’44“. Avevo preso spunto da un episodio de “I sommersi e i salvati“ di Primo Levi e avevo costruito una sceneggiatura che trattava argomenti simili a quelli dello spettacolo su Árpád Weisz. Il racconto sportivo, dunque, l’ho sempre conservato. Non solo a teatro, ma anche come scrittore: il mio primo libro è stato “Se no che gente saremmo. Giocare, resistere e altre cose imparate da mio padre Giacinto“. Per un periodo ho scritto di sport anche per i quotidiani e ho lavorato per due stagioni alla “Domenica Sportiva“, in Rai, in cui raccontavo storie di sport. Poi a teatro ho interpretato uno spettacolo, tratto da un libro di un giovane milanese, intitolato “Mi voleva la Juve“. Lo spettacolo, forse per l’accostamento tra la Juve e il cognome Facchetti, chissà, ebbe successo. Da allora sono andato avanti a battere quella strada, tra teatro e sport".
A proposito di sport, lei ha scritto il libro “C’era una volta a San Siro“. Favorevole o contrario al nuovo stadio?
"Contrario. Tutta la vicenda, fin dall’inizio, è stata gestita male. Per me la mancata ristrutturazione del Meazza è un’occasione persa. Di recente sono usciti i dati sugli indotti dagli stadi in Europa. Al primo posto c’è il Real Madrid, che ha ristrutturato il Bernabeu. Non penso che l’obiettivo degli investitori che vogliono il nuovo stadio a San Siro coincida con il bene di Milano e di chi ci vive".
Milano, dall’Expo 2015, è sempre più internazionale, ma ci sono polemiche su sicurezza e caro casa. Che ne pensa?
"La trasformazione di Milano, in positivo, è sotto gli occhi di tutti. È la città italiana più internazionale, ma va protetta dalle logiche speculative. Non bisogna dimenticare chi ha più difficoltà a vivere in città. Non ci possono essere solo grandi eventi e settimane tematiche, bisogna affermare anche una dimensione di normalità. Emergenza sicurezza? C’è meno sicurezza rispetto al passato, ma non ne darei la colpa al Comune. È un problema che deve essere risolto a livello nazionale".
Un sogno per Milano?
"Le aree giochi per i bambini dovrebbero essere di più e tutte recintate. In modo che di notte non vengano vandalizzate e sporcate. E i bimbi le ritrovino sempre in perfetto stato. In più bisognerebbe finirla con i botti a mezzanotte ogni sera, come fosse Capodanno. Insopportabili e impuniti".