Il Senatur alla sbarra vent’anni dopo: il tramonto di un leader rimasto solo

È accusato di appropriazione indebita. "Io? Mai pensato ai soldi"

Umberto Bossi in aula

Umberto Bossi in aula

Milano, 12 luglio 2016 - "Buona estate", augura augura il vecchio Senatur in giacca blu al giudice e al pubblico ministero alla fine dell’udienza. E torna in mente un’estate di metà anni ’90 del secolo scorso, quando in un caldo pomeriggio di Porto Cervo ospite di Berlusconi, l’allora rampante leader leghista apparve all’improvviso in canottiera, indumento nazional popolare come nessun altro. Una specie di simbolo vitale addosso a un uomo già non più giovanissimo (Bossi è del ’41) ma che si era, dal nulla, inventato un partito di successo. E aveva intorno a sé nani, ballerine e cortigiani, padani ovviamente. Anche ieri mattina faceva caldissimo e Bossi era lì nell’aula del tribunale, indebolito e imbarazzato dalla malattia che lo affligge ormai da anni, ma quasi elegante. E soprattutto solo, solissimo. Una specie di simbolo ma di un mondo che non c’è più, Prima Repubblica con protagonisti ormai scomparsi o per evidenti ragioni ai margini e disconosciuti anche come padri nobili.

L’ex leader è alla sbarra perché deve rispondere dell’uso scorretto che - secondo l’accusa - fece a suo tempo di soldi leghisti utilizzati per esigenze familiari. Lontanissimi gli anni in cui l’inventore del Carroccio debuttò a Palazzo di Giustizia nel processo al finanziere Sergio Cusani per alcune briciole della maxi tangente Enimont finite all’epoca al tesoriere della Lega. Eppure anche ieri che, non riuscendo a parlare a lungo, Bossi ha affidato le sue dichiarazioni spontanee al legale di sempre Matteo Brigandì, il messaggio che ha voluto mandare è lo stesso di allora: "Poiché la politica è la cosa di cui mi occupo sono sempre stato lontano dagli affari economici del partito e non ho mai interferito con le decisioni dell’amministrazione". Stavolta c’era però una nota più dolente nelle sue parole, quella di un tramonto difficile da sopportare. Lo fa capire meglio una volta conclusa l’udienza, quando quasi si abbandona sulla panchina in marmo nell’atrio al terzo piano del Palazzaccio, ancora tutto solo salvo la donna che lo accompagna e che, premurosamente, gli fa aria con un ventaglio.

"Siamo vivi - giura - e la Lega diventerà più forte di prima nonostante i casini che ci hanno combinato e che sono sfociati in questo processo. Quando mi sono dimesso, nell’aprile 2011, la Lega aveva 41 milioni di euro che sono spariti". Il vecchio leone ferito non ci sta ad uscire di scena in questo modo. "Fino alla malattia - ha fatto leggere in aula - ho sempre devoluto il mio intero stipendio di senatore al movimento per una cifra di molto superiore a quella che mia moglie poteva chiedere per le necessità  familiari". E pazienza per Renzo, quel figlio che ieri ha ascoltato in aula difendersi un po’ così. Colpa anche sua, forse, che a chi gli chiedeva se sarebbe stato quello il suo “delfino”, guardando il figliolo disse: "Delfino? Trota, semmai...".

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