Sequestro Moro, ultimo atto. Il giudice Salvini e le Br: "Mentono da 45 anni”

Il 9 maggio il corpo dello statista Dc nel baule della Renault rossa segna la fine delle speranze. Il magistrato consulente dell’ultima commissione: sulla dinamica dell’agguato troppe bugie.

Milano, 9 maggio 2023 – Il 9 maggio 1978, 45 anni fa, in via Caetani, una stretta stradina del centro di Roma a poca distanza fra piazza del Gesù, sede nazionale della Democrazia cristiana, e via delle Botteghe Oscure, quartier generale del Partito comunista italiano, sul pianale del bagagliaio di una Renault 4 rossa, rannicchiato sotto una coperta, c’è il corpo di Aldo Moro, crivellato di colpi, con la barba lunga. Questa immagine segna la fine delle speranze durate cinquantacinque giorni, da quel 16 marzo in cui alle 9.02 in via Fani, all’angolo con via Stresa, Moro fu prelevato dal commando delle Brigate rosse che avevano eliminato gli uomini della scorta: Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. Per Guido Salvini, gip milanese e consulente dell’ultima commissione d’inchiesta, la verità ancora non c’è.

In via Fani, quella mattina del 16 marzo 1978, a sparare furono almeno due o tre terroristi in più di quelli che figurano nelle ricostruzioni ufficiali. E altri due, in funzione d’appoggio, erano davvero su una moto accanto ai quattro Br travestiti da avieri con i mitra in mano. Tutto e il contrario di tutto è già stato detto e scritto, in questi 45 anni, sulla mattina della strage della scorta e del rapimento del presidente della Dc. Atti giudiziari e romanzi, complottismi e dietrologie. Difficile aggiungere qualcosa senza scatenare reazioni. A sfidare il pericolo è il giudice Guido Salvini, magistrato di grande esperienza che ha indagato su terrorismo di destra e di sinistra e persino su quello islamico. È stato negli ultimi anni consulente della Commissione Moro e della Commissione antimafia presieduta da Nicola Morra, nel gruppo di lavoro coordinato dalla deputata Stefania Ascari, redigendo la relazione finale sull’agguato del 16 marzo ’78.

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Giudice Salvini, in via Fani c’erano più sparatori rispetto ai quattro indicati dal brigatista Valerio Morucci.

"Credo che questo emerga dalla relazione sulla base di elementi oggettivi e non di dietrologie, che abbiamo sempre evitato. Mi riferisco ad uno o più sparatori in alto a sinistra, rispetto al punto esatto dell’agguato. Annullarono il tentativo di reazione di uno degli uomini della scorta, l’agente Raffaele Iozzino".

Su cosa si basa questa ricostruzione?

"Richiamo l’attenzione sul racconto di una testimone da noi sentita, molto precisa e attendibile, che ne vide almeno uno. La polizia scientifica all’epoca non la considerò, eppure disse di aver visto, mentre percorreva a piedi via Fani verso via Trionfale, sei persone (e non quattro) impegnate nella sparatoria, e non tutte con la divisa colore azzurro degli avieri. In particolare aggiunse di aver visto un’arma che sparava al di là dell’auto in sosta sul lato del bar Olivetti, con la canna che fuoriusciva dalla sagoma dell’auto. Racconto che ha ripetuto dopo più di quarant’anni davanti alla nostra Commissione".

Perché ritiene questa teste così attendibile?

"Era una studentessa che quel giorno non si spaventò e cercò di seguire quello che stava avvenendo. Svolge poi la professione di architetto e ha piena confidenza con le planimetrie e con la collocazione di oggetti e persone nello spazio, come ha dimostrato durante l’audizione. Il suo racconto, peraltro, corrisponde a quello di un altro testimone che parlò di altri due terroristi sbucati tra due auto parcheggiate. Furono loro a sparare all’agente Iozzino, non uno dei brigatisti già conosciuti. Per la prima volta abbiamo ricostruito la scena con piantine dettagliate in cui sono collocati con precisione spettatori, testimoni, autovetture e le rose dei bossoli. Sembra incredibile ma non era mai stato fatto".

Il brigadiere Francesco Zizzi, sostiene la relazione, uscito dall’auto di scorta venne colpito alle spalle da un terzo sparatore rimasto senza nome. Ma non fu ucciso invece mentre era in macchina?

"No. All’epoca gli approfondimenti tecnico-scientifici non erano ancora disponibili, ma non ci sono fori di proiettile nello schienale del sedile che Zizzi occupava sull’autovettura. Uscì e fu abbattuto da uno sparatore che si trovava probabilmente accucciato sul lato destro della strada.

Ritenete accertata anche la presenza degli altri due terroristi sulla motocicletta.

"È stato uno degli argomenti più dibattuti e contrastati. Erano complici? Erano lì per caso? Abbiamo potuto rintracciare uno dei testimoni. Un ex studente, oggi primario in un ospedale bergamasco, che ha conservato vivido il ricordo di una figura a cavalcioni della moto e vestita proprio da aviere".

Ci fu un intervento della criminalità organizzata nel sequestro dell’onorevole Moro?

"Può darsi vi sia stato qualche appoggio logistico. Invece è certo che la criminalità organizzata si sia proposta e attivata per individuare la prigione. In questo senso c’è anche la testimonianza di Maurizio Abbatino, all’epoca boss della Magliana. Fu fermato non per motivi etici ma perché Moro liberato non serviva più".

In che senso?

"Molto probabilmente le istituzioni, il Comitato di crisi e gli uomini del suo partito, dopo che le Brigate rosse annunciarono la piena collaborazione di Moro al suo interrogatorio potevano temere che avesse raccontato e scritto, anche in modo forzato, molto più di quanto effettivamente avvenuto, con conseguenze disastrose, se fosse divenuto pubblico, per il quadro politico interno e le alleanze internazionali. A quel punto Moro era politicamente morto, più ancora che morto era divenuto ingombrante. Poteva essere lasciato morire".

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