ANNAMARIA LAZZARI
Cronaca

Il Rocky di Milano tornato dall’Australia: "Io, uomo del ’900"

Rocco Mattioli, boxeur campione del mondo nel '77: "Ora insegno ai piccoli un'arte ormai dimenticata"

Rocco Mattioli (Newpress)

Milano, 22 novembre 2017 -  «La mia famiglia aveva deciso di emigrare a Melbourne, in Australia, quando avevo 4 anni, per sfuggire alla povertà più nera. E io sono salito sul ring perché avevo “fame”», racconta il pugile Rocco Mattioli, 64 anni, campione nel mondo nella categoria dei superwelter tra il 1977 e il 1979. A fine anno farà uscire la sua prima biografia: 73 incontri disputati in carriera, 64 vittorie di cui 51 per ko. Un mito che inizia, per così dire, prima della nascita. Soprannominato sul ring “Rocky”, come Marciano, è nato, come il padre del peso massimo americano, a Ripa Teatina, provincia di Chieti. «Mio padre da giovane incontrò Marciano, venuto a fare una visita nella città natale dei genitori. Gli toccò il braccio, mi chiamò Rocco in suo onore». Quasi un tocco taumaturgico.

Si ricorda il giorno in cui ha messo piede per la prima volta in una palestra?

«Avevo 13 anni, già lavoravo come saldatore. Mio cugino, appena arrivato, mi chiese di accompagnarlo in una palestra perché non conosceva una parola d’inglese. L’allenatore era un reduce del Vietnam, si chiamava Stan Mounsey. Guardò mio cugino prendere a pugni il sacco e poi disse a me di fare lo stesso, anche se non volevo. “Sei tu quello che deve fare il pugile” disse sicuro. I primi match sono arrivati poco dopo. A 16 anni ero professionista. A 19 sono diventato campione australiano».

Perché è tornato in Europa?

«Per l’insistenza del promotore Umberto Branchini che fece un viaggio fino in Australia per convincermi. Era il 1975. Mi disse: “Firma il contratto e ti farò combattere per il titolo mondiale”. Era un uomo d’onore. Il primo incontro lo feci a Milano e mandai al tappeto Chris Fernandez. Al secondo sconfissi Momohun Mohatar. Nel 1977 a Berlino, è arrivata la prima cintura mondiale, battendo Eckhard Dagge».

Per arrivare al titolo ha dovuto fare tanti sacrifici?

«Ho passato la giovinezza ad allenarmi, a correre la mattina e il pomeriggio in palestra. Mai un’uscita serale. Bisogna essere una macchina perfetta. Ma la fisicità non basta. La tecnica è intelligenza e tempismo: schivare i pugni e rientrare, questione di frazioni di secondo».

Ha difeso il titolo nella categoria medi junior in altre due occasioni, sconfiggendo Elisha Obed e poi Josè Duran nel 1978. Poi cosa è successo?

«Mi sono sposato. Non rinnego nulla. Quando Dio ti toglie una cosa, te ne dà un’altra e sono arrivati tre bellissimi figli maschi da una moglie stupenda. Ma ero diventato troppo sensibile. Avevo perso grinta».

E quindi che ha fatto?

«Vivevo a Trezzano. Sono diventato istruttore di palestra. Dopo la fine del matrimonio mi sono trasferito a Milano, in una bella casa di ringhiera a Porta Venezia. Una zona che adoro, mi conoscono tutti dopo vent’anni. Ora alleno bambini alla Doria».

Perché non gli adulti?

«Perché i piccoli sono il futuro».

Non è che la boxe di oggi non le piace?

«Forse è anche quello. È show, bella scenografia, un balletto di finte. Ma la boxe vera è altro. In generale, non sono molto in sintonia con il nuovo millennio. La tecnologia la odio. Mi sento e resto un uomo del ‘900».

Cosa manca ai Millennials?

«Hanno troppe comodità. Nella boxe servono la disciplina, il carattere e la disponibilità a soffrire. I colpi fanno male. Ma se superi questa scuola di dolore, rispettando le regole e il tuo avversario, diventi un uomo vero».