MILANO – “Milano è la città dei ragazzi e delle ragazze, fatta apposta per i giovani, con mille opportunità, ma è ancora troppo una città parcheggio”. Daniele Novara è direttore e fondatore del Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti.
Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di crescere a Milano?
“Le ricerche ci dicono che nei primi 5 anni di vita è meglio crescere nella natura. Poi è consigliabile vivere in città, soprattutto in adolescenza, specie in una città come Milano con tanti parchi. La città in adolescenza è insuperabile, è il luogo della cives, dove si costruisce la cittadinanza, la partecipazione, dove i ragazzi possono realizzare desideri e progetti, perché incontrano i compagni, c’è lo sport, musei, cinema. Bisogna però predisporre spazi di mobilità adatti a loro, come piste ciclabili. Oggi abbiamo bisogno di liberare spazi pedonali, piazze, panchine dove i ragazzi possano fare gruppo”.
Anche per evitare l’isolamento. Come spiega casi di cronaca nera come la strage a Paderno? L’isolamento che il digitale causa è una delle spiegazioni?
“C’è una concentrazione negli ultimi mesi di reati gravi da parte di minori. La cosa che colpisce è che molti di loro, di fronte alla domanda “Perché l’hai fatto?”, non sanno rispondere. Questi ragazzi vivono in un mondo isolato consegnati ad una realtà virtuale dove l’elemento di concretezza, la frustrazione di vivere con gli altri, quando ad esempio il bimbo piccolo deve litigare per riavere il suo giocattolo, si è persa e quindi entrano in uno stato di atrofia relazionale dove la comunità non riesce più ad avere una misura educativa. Devono imparare a saper gestire i conflitti, le contrarietà, le frustrazioni con gli altri. Non possono pretendere di avere sempre ragione. Questi casi sono i segnali che stiamo entrando in un baratro educativo che va affrontato tutti insieme: i genitori non vanno lasciati soli, sono figure fragili che fanno fatica a reggere la complessità. Dobbiamo dare loro un sostegno educativo, informazioni”.
Qual è il ruolo educativo della famiglia in questo contesto?
“Bisogna che i padri entrino in gioco, affinché ci sia un vero gioco di squadra il paterno non può essere lasciato in panchina. I ragazzi devono sentire che c’è un limite, che esistono paletti educativi: c’è un orario di rientro, di notte i dispositivi digitali non si usano, c’è la paghetta e i genitori non sono un bancomat”.
Emerge sempre più la figura del genitore-amico.
“Il genitore che vuole stare in intimità con i figli, che non mette la giusta distanza educativa, perde il suo status, trasformandosi nell’amico, nel confidente, nello psicologo del figlio, non fa altro che diventare macchietta, una parodia dell’esser genitore. Cosa se ne fa un bambino di un “padre peluche”? Nulla. Questi genitori che sostituiscono i compagni di gioco sono una vera tragedia per il bambino che, invece, deve giocare con gli amici, i coetanei e non con un padre che li fa vincere a qualsiasi gioco”.
Tornando ai casi di cronaca nera, come cogliere i segnali di sofferenza, di un disagio del figlio adolescente?
“Gli indizi sono migliaia. Il problema è che i genitori non sono attrezzati. Il caso di Paderno nasconde tante cose che noi non conosciamo. Non sono dell’idea che un figlio 17enne possa sterminare la famiglia perché gli viene lo schiribizzo. È chiaro che le ragioni ci sono, non vanno cercate semplicemente nelle risposte che potrà dare il ragazzo ai giudici, ma anche nel sistema educativo familiare che ha evidentemente generato una situazione drammatica. Non voglio dire che i genitori siano colpevoli di qualcosa, ma non si può certo pensare che una situazione del genere nasca come i funghi nel bosco. Non ha senso, questo è fatalismo, che è ancor più pericoloso di quel che è accaduto. Se i genitori iniziano a pensare “ma ci potrà ammazzare?” si mettono in un’ottica di protezione dai figli, invece devono educarli”.
Recente è l’annuncio dell’Australia che vieta per legge l’accesso dei minori di 16 anni ai social network. Cosa pensa?
“Brava l’Australia, con premier di origine italiana, Anthony Albanese, che passa ai fatti! L’Italia può essere il primo Paese al mondo a tutelare bambini e ragazzi mettendo il limite di 14 anni all’uso degli smartphone”.
Tablet nell’apprendimento: la direzione adottata dalle scuole è quella giusta?
“Occorre stabilire un metodo, che ribadisco nel mio libro “Cambiare la scuola si può”. La tecnologia va usata in maniera condivisa e non individuale. Se viene chiesto dalla scuola un tablet per ciascun alunno, affossiamo gli studenti dentro una realtà virtuale. Nei primi anni della scuola primaria e tanto più alla materna non si può usare né la tastiera né il touch perché si interrompe il processo di lepto-scrittura”.
Non è la “nostalgia del pennino” come definisce chi non condivide questa opinione?
“No, esistono numerosi studi scientifici sulla maggior efficacia della lettura su cartaceo che dimostrano che il libro attiva sensorialità e neuro-connessioni che nessun video schermo è in grado di attivare”.
Cosa dice alle scuole che usano il tablet come strumento?
“Bisogna distinguere fra la necessaria “copertura tecnologica” che la scuola deve avere e la “sostituzione tecnologica”. Se sostituiamo il motorio, come nel caso della scrittura con il tablet personale, creiamo situazioni di depressione neuro-cognitiva che aprono la porta a ogni sorta di disturbi dell’apprendimento, poi paradossalmente trattati ulteriormente con pc e tastiere. Siamo al grottesco...il business è talmente forte che dopo aver creato il problema della lepto-scrittura con l’eccesso di videoschermo, ecco che viene proposto a chi non riesce a scrivere o leggere bene. Siamo al paradosso!”.