Andrea
Maietti
Tempi gramissimi, quasi infelici. Ah perché non son io coi vecchi amici? L’oratorio
di Costaverde. Una dozzina di adolescenti, quasi tutti già avviati al lavoro. Sentivamo
il bisogno di parlare di noi, lontano dai genitori e anche dal prete. Il nostro, don
Chilometro, nonché capirci, ci offriva addirittura il suo studiolo per le nostre riunioni.
Erano tempi di aspra povertà. Il futuro ci appariva nero. Una sera progettammo di
fondare una società che vivesse della condivisione e l’apporto gratuito dei rispettivi
talenti. C’erano tra di noi il contadino e il muratore, l’idraulico e l’elettricista, il
falegname e il panettiere. Persino il becchino, e un amico che conosceva i segreti
medicamentosi delle erbe, un medegòn. Per le esigenze dello spirito sarebbe andato
bene don Chilometro, di pochi anni maggiore di noi. Arrivammo quella sera a
stendere una sorta di carta di fondazione, con tanto di nomi e soprannomi: Pola,
Pignata, Mata-lögia, Lüserton e via scumagneggiando. Accanto, le rispettive
mansioni professionali. D’un tratto si fece silenzio. Quale contributo, quale
mansione per me, unico studente della compagnia? Mi sentivo in grave imbarazzo.
Gli occhi degli amici mi fissavano. "Te pödi diventà aucàt", mi incoraggiò uno.
"Dutùr", propose un altro. Avevo 17 anni: nessun trasporto per gli studi causidici; e
il sangue mi faceva svenire: "Mì pödi fa apéna el prufessur de scola". Qualcuno mi
diede una pacca sulla spalla: "Alùra sém a post – disse -: te ghe darè a trà ai nosti
fiöi".
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