
Rosanna D'Antona con Umberto Veronesi
Milano, 10 novembre 2016 - Quante donne avrà operato Umberto Veronesi (la camera ardente - LEGGI) in quarant’anni all’Istituto nazionale dei tumori e venti all’Ieo? Sessantamila è una stima, ma sono molte di più quelle cui ha cambiato la vita (LEGGI), perché, dicono all’Istituto europeo di oncologia, lui il cancro l’ha sdoganato quand’era un “brutto male” innominabile. Diceva, Veronesi, che "è più facile togliere il tumore dal corpo che dalla mente". La manager Rosanna D’Antona è stata la "paziente zero" dell’Ieo, la prima a farsi operare nel centro creato dal prof quand’era ancora un mezzo cantiere, con le ruspe e i muratori.
Rosanna, come andò?
"Nel 1994 ero una milanese attiva di 45 anni con due figlie di dieci e quindici da tirar su. Non mi aspettavo niente del genere. Per fortuna, avendo avuto una mamma e una zia ammalate, avevo chiaro il fattore ereditario e mi controllavo, anche grazie alle campagne del professor Veronesi e dell’Airc. Ma all’epoca non avevamo internet, si parlava sottovoce di questo famoso male oscuro e inguaribile, che faceva paura, terrore. Lui era già un punto di riferimento. Riuscii a mettermi in contatto tramite un’amica. Diventò il mio medico e un amico e un riferimento per più di vent’anni. Incontrarlo è stata la mia fortuna, una di quelle fortune stellari che oggi è più accessibile a tutte".
Come l’ha convinta a farsi operare in un ospedale in cantiere?
"Ricordo la prima volta che mi ha visitata. Tremavo, ero spaventatissima: per me tumore era uguale a morte, e basta. Pensavo d’aver chiuso. E lui, col suo sorriso, mi ha detto: “Stai tranquilla, non è questo che ti farà morire”. Poi l’ho sentito personalmente all’Ieo, istruire i suoi medici: “Se un paziente vi ferma rallentate, dedicategli quei pochi minuti che servono a rassicurarlo”. Questa era la sua magia. Per curare si deve stabilire una relazione umana in cui tu ti puoi affidare. È stata la sua forza. Lui amava gli altri, anche chi aveva un’opinione contraria. Era sempre accogliente, col paziente, con lo scienziato che non condivideva le sue tecniche, ascoltava, non si stancava di spiegare il suo punto di vista. Si prendeva il tempo. Diceva che dormire è un po’ inutile, quattro ore bastano, e ovviamente era un grande lavoratore ma era anche una persona che continuamente produceva pensiero, visioni, ispirazioni".
Ispirava anche i pazienti?
"Certo. Ad esempio Europa Donna, il movimento nato nel 2003 del quale da sei anni sono presidente: siamo pazienti ed ex pazienti che fanno “civil lobbying” per informare e sensibilizzare i politici e le autorità a fare politiche buone per la salute della donna. Il professore ci teneva, credeva nella consapevolezza della malattia e dei propri diritti. Abbiamo ottenuto la risoluzione europea, adottata dal nostro Paese tra il 2014 e il 2015, per creare i famosi centri di senologia multidisciplinari. In sostanza quel che una donna trova all’Ieo: l’oncologo, il chirurgo plastico, lo psicologo, il dietologo, il sostegno delle associazioni di pazienti per riprendere la propria vita. È provato che in queste strutture la sopravvivenza sale al 98%. Siamo lontani dall’obiettivo di averle su tutto il territorio ma non molliamo, ce l’ha insegnato il prof: le donne devono avere un trattamento equo quando si tratta di questa malattia, che ne colpisce una su otto".
Lei è riuscita a togliersi il tumore dalla mente?
"Il giorno in cui mi ha operata. Ma non dal cuore: vedo ancora donne che arrivano alla malattia disarmate, con poche informazioni. Dobbiamo aiutarle, soprattutto le giovani che, come me, si ammalano prima di aver raggiunto l’età delle campagne di screening. Se avessi aspettato i cinquant’anni non sarei qui a parlarne".