GABRIELE MORONI
Cronaca

Imma Arcadu, una vita da ostetrica. L’emozione del primo parto e quella volta che una mamma si salvò in extremis

Maria Immacolata Arcadu, professionista di lungo corso tra la Mangiagalli e i consultori milanesi. “A distanza di anni ritrovai una ‘mia’ neonata a Stromboli”

Imma Arcadu in una foto di metà anni 2000 e oggi

Imma Arcadu in una foto di metà anni 2000 e oggi

Milano – Ha due figli biologici, ma è la "mamma" degli oltre cinquemila neonati che ha aiutato a venire al mondo. E sue amiche sono anche le diecimila donne diventate madri con lei, che si preparavano a esserlo, che desideravano esserlo. Maria Immacolata Arcadu è Imma. Nata in provincia di Sassari. Ostetrica di lungo corso, passione coniugata alla professionalità, nella sala parto della Clinica Mangiagalli e in consultori milanesi. Ora, da pensionata, è volontaria dell’Unione Femminile Nazionale e risponde allo Sportello telefonico gratuito di consulenza ostetrica.

Signora Arcadu, come sarà per lei sarà la Festa della Mamma?

"Sarà soprattutto la festa di due giovani mamme, le mogli dei miei figli: una è mamma di una bambina di due anni e mezzo e l’altra è in attesa. Sarà una bambina, naturalmente. Le mamme sono loro. Io mi sento soprattutto nonna".

Ricorda il primo parto?

"Terrificante. Era il 1976. Avevo scelto di andare nella sala parto della Mangiagalli. Le condizioni erano difficili. Ero dubbiosa se rimanere o no. Poi ho pensato che era stata una mia scelta e dovevo restare per cercare di migliorare l’assistenza. Il primo giorno di lavoro ho preso in braccio il primo bambino. All’epoca ne nascevano quindici nell’arco delle ventiquattr’ore. Del neonato ricordo che fu subito staccato dalla madre, lavato e portato nel nido. Sbagliato. Il cucciolo umano è l’unico che deve rimanere addosso alla madre per nutrirsi e sopravvivere".

L’esperienza più triste.

"La morte del neonato. Ne ho visti morire, purtroppo. Il dolore di doverlo comunicare non solo alla madre, ma anche al padre, alla famiglia".

La più drammatica.

"Ero alla Mangiagalli, alla patologia della gravidanza. Una sera attendevamo l’arrivo di una signora da un ospedale della provincia. Sarebbe stato un parto post mortem. La madre sarebbe morta, il bambino si sarebbe salvato. C’erano tutti, primario, anestesista, pediatra. Si decise una cosa meravigliosa: “Tentiamo". Taglio cesareo. Parto. Il bambino nacque e la madre sopravvisse. Un altro ricordo. Una donna aveva un tumore al seno. Mentre era in chemioterapia seppe di essere incinta. Nessuno pensava che sarebbe riuscita a portare a termine la gravidanza. Invece divenne mamma e allattò al seno. Si chiama Cinzia. Ha raccontato la sua storia in un libro".

I “suoi” bambini. A distanza di anni dalla nascita, le è capitato di incontrarne qualcuno?

"Una signora era venuta da Stromboli per portare avanti una gravidanza ad alto rischio. Andò tutto bene, diede alla luce una bella bambina. Anni dopo con mio marito avevamo affittato una casa per le vacanze a Stromboli. Al porto ci aspettava una ragazza molto carina. Le raccontai la storia di quella nascita. “Dove posso trovare la bambina?“, chiesi. La ragazza sorrise: “L’ha trovata. Quella bambina sono io”. Una cosa simile vale una professione".

Qualche mamma ha dato il suo nome alla bambina? Oppure lo avete scelto insieme?

"Più che dare un nome, ho contribuito a non farlo dare. Una signora voleva chiamare la sua bambina Crocifissa. Le ho detto che se proprio voleva, quello poteva essere, al massimo, il sesto nome".

Le mamme e le figlie delle mamme.

"Ho seguito le tre gravidanze di una donna. L’altra sera mi ha telefonato la figlia secondogenita. È in attesa ed era andata in crisi. Una sciocchezza. Ho risolto. Il parto podalico di un’altra mamma era stato l’oggetto della mia tesi di diploma. Poi ho seguito la gravidanza della figlia. Ci sono mamme che mi chiamano ancora adesso per un consiglio. Ci sono quelle che abitano vicino a me e mi fermano per strada o al supermercato. Tengo a dire una cosa: ho sempre cercato di coinvolgere i padri, le persone che le donne avevano vicino, le baby sitter".

E poi ci sono i drammi privati, le grandi emergenze, questioni come l’integrazione di altre etnie.

"Ho seguito le gravidanze di donne con problemi psichiatrici, quelle di donne sieropositive quando l’Aids era il terrore del mondo. Nel consultorio di via Castelvetro eravamo vicino alla comunità cinese. Ricordo un coppia, moglie e marito, che avevano le mani congelate per le condizioni in cui lavoravano in un capannone. Congelati a Milano. Ci rendiamo conto? Avevamo conquistato il rispetto e la fiducia della comunità. Ci arrivavano donne cinesi da fuori Milano, una veniva da Venezia, altre partivano da Torino, da Parma".

Imma e le altre, le colleghe che oggi sono le sue amiche. Come Patrizia Braglia, assistente amministrativa della Casa di Comunità di piazzale Accursio: "Se sono riuscita a portare a casa la pelle e una figlia, lo devo anche a lei. A differenza di tante donne che vanno al consultorio, è stato il consultorio a venire a me. Le dirò sempre: “Grazie Imma“".