
Omicidio Mormile, l’altra verità: "Rapporti tra ’ndrangheta e servizi. Eliminato perché sapeva troppo"
di Andrea Gianni
MILANO
La "verità" di Nino Cuzzola e di altri collaboratori di giustizia, secondo i quali Umberto Mormile fu ucciso perché a conoscenza dei rapporti fra ’ndrangheta e servizi segreti, "nella sua lineare coerenza" è "forse quella, tra le varie prospettabili e prospettate" più "in linea" con "i dati". L’esecuzione del 34enne educatore del carcere di Opera, avvicinato l’11 aprile del 1990 da due uomini in moto e crivellato da sei colpi di pistola nelle campagne di Carpiano, mentre andava al lavoro, si può oggi "ricontestualizzare" alla "luce di un’altra ‘verità’", all’interno di uno "oscuro, ma verosimilmente ormai disvelato, intreccio di poteri e di precari equilibri tra forze, solo apparentemente antitetiche". La "tesi alternativa" sull’omicidio di Mormile è "concretamente prospettabile" secondo il gup di Milano Marta Pollicino, che in quasi 170 pagine ha motivato la sentenza del 15 marzo scorso con cui sono state inflitte altre due condanne, a distanza di quasi 34 anni dai fatti: 7 anni ai due collaboratori di giustizia Salvatore Pace e Vittorio Foschini, finiti imputati per concorso nell’omicidio aggravato dalla finalità mafiosa (avrebbero messo a disposizione la moto utilizzata dai killer) in seguito alla riapertura delle indagini voluta dai familiari di Mormile, fratello, sorella e figlia, col legale Fabio Repici. Condanne che si aggiungono a quelle già inflitte anni fa, come mandanti, ai boss della ‘ndrangheta Antonio Papalia, Franco Coco Trovato e Domenico Papalia.
Dalle motivazioni, che ripercorrono passo passo gli atti di numerosi processi del passato tra cui quello sulla cosiddetta "’ndrangheta stragista" e le dichiarazioni di numerosi collaboratori, viene a galla, in sostanza, una nuova "verità prospettabile". La famiglia ha sempre sostenuto che l’educatore venne sì ucciso dalla ‘ndrangheta, ma con una sorta di nulla osta dei servizi segreti deviati. Il 34enne, ha messo a verbale un collaboratore di giustizia, doveva essere ucciso, come riportato nelle motivazioni, perché "parlava troppo e perché era a conoscenza dei rapporti" che Domenico Papalia "aveva con i servizi segreti". Un "movente omicidiario", riassume la gup, che diverge molto da altre tesi "diffamatorie" e anche da altre più "rispettose" della "memoria della vittima", come quella che sostiene che non accettò di farsi corrompere da Domenico Papalia, detenuto. Pagine che mettono quindi una nuova luce sul cold case degli anni ’90, in una stagione di stragi che hanno insanguinato l’Italia, anche se il processo si è concentrato non sul movente ma sulle responsabilità dei due imputati nell’agguato. Il pm Stefano Ammendola aveva chiesto il rinvio a giudizio per Pace, 66 anni, e Foschini, 63 anni, dopo che un giudice aveva rigettato una richiesta di archiviazione accogliendo l’opposizione dell’avvocato Repici.