
La piccola Matilda Borin (Ansa)
Milano, 24 novembre 2018 - Il fatto che dopo tredici anni non si sia potuti arrivare a un giudizio di colpevolezza sulla morte della piccola Matilda è una sconfitta personale per tutti noi che ci siamo occupati del caso e una sconfitta del sistema giustizia, ma condannare un innocente per trovare un colpevole sarebbe ancora peggio. Condannare una persona sulla base delle risultanze dei vari processi non si può». Al processo di secondo grado, davanti alla Corte d’Assise d’appello di Torino, il sostituto procuratore generale Marcello Tatangelo chiede l’assoluzione di Antonio Cangialosi dall’accusa di omicidio preterintenzionale. Una vicenda sconcertante, unica al punto da risultare paradossale. Tredici anni dopo. Tredici anni di indagini e processi non sono stati in grado di stabilire chi sferrò quel colpo devastante alla schiena (forse un calcio tanto violento da spappolare la milza e provocare il distacco di un rene) che troncò il viaggio nella vita di Matida Borin. Un viaggio durato soltanto 23 mesi.
Era il pomeriggio del 2 luglio del 2005, in una casa colonica di Roasio immersa nelle campagne del Vercellese. Due sole persone erano in casa con la bambina. Elena Romani, oggi 44 anni, hostess di Legnano, che aveva avuto Matilda dall’unione con Simone Borin, di Busto Arsizio. L’uomo accanto a lei era il fidanzato Antonio Cangialosi, ex bodyguard, poi dipendente di una ditta di autotrasporti. Per le legge nessuno dei due colpì Matilda, nessuno va giudicato colpevole. Non la madre, processata per omicidio preterintenzionale, assolta nei tre gradi di giudizio e definitivamente uscita di scena. Non Cangialosi, già prosciolto due volte e assolto, nel dicembre del 2016, dal gup di Vercelli per non avere commesso il fatto. Nell’appello di Torino il sostituto pg chiede a sua volta l’assoluzione. Problematica, amara, a tratti quasi sofferta la requisitoria del rappresentante dell’accusa, durata cinque ore e mezzo. «Siamo nel campo della prova indiziaria. La quasi totalità degli indizi è probatoriamente neutra. Dunque non sono gravi. Abbiamo pochissimi indizi che sono gravi e che ci portano in giudizio di elevata probabilità a dire chi può essere stato. Ma la valutazione complessiva degli indizi ci porta a dire che non sono concordanti». Viene ricostruita l’intera vicenda dall’inizio, partendo dagli indizi, radiografati ad uno ad uno, incrociando le consulenze scientifiche e le sentenze. E criticandole.
«Su chi sia stato – dice, infatti, rivolto alla Corte – a colpire Matilda non c’è nessuna certezza. Io mi sono fatto un’idea su chi sia il colpevole. Ma è solo un’idea. E dirvela, in mancanza di prove certe, non sarebbe utile e neppure corretto. Io, se facessi il vostro lavoro non condannerei il signor Cangialosi. Devo anche dire che se fossi stato nel processo alla Romani, non l’avrei condannata. Perché non c’è certezza. Anch’io, come tutti i magistrati che mi hanno preceduto, ho cercato di capire questa vicenda terribile. Tutti vogliamo capire chi è stato. E inevitabilmente viviamo come una sconfitta personale e del sistema giustizia il fatto che dopo tredici anni non si riesca a dirlo. Ma condannare un innocente sarebbe ancora peggio». Elena Romani si allontana dall’aula in lacrime. «Il vizio originale – dice Tiberio Massironi, legale della donna con Roberto Scheda – è stato in origine. Ci doveva essere un unico processo per entrambi. Invece hanno trovato la Medea di turno e l’hanno sbattuta in galera». Antonio Cangialosi distilla poche parole: «Sono sollevato, ma non avevo dubbi. Nelle carte c’è tutto».